
LA PARABOLA DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE DEL TERRITORIO NAPOLETANO.
di Antonio Ferrara(1)
Ho una tale fiducia nel futuro,
che faccio progetti solo per il passato
AERITALIA – La Sinistra politica e sindacale dell’azienda aeronautica di Pomigliano D’Arco.
Introduzione (Cap.1)
Il PCI e la volontà di riscatto della città. (Cap.2)
La sezione Pci dell’AERITALIA e i sindacalisti della Fiom e i militanti di fabbrica del PSIUP. (Cap.3)
L’azienda Aeritalia (Cap 4)
I PROTAGONISTI e lo scenario generale.
– Renato Bonifacio (Cap 4.0)
– Fausto Cereti (Cap 4.1)
La Politica. Gli anni bui dall’80 al 90 (Cap 5.0)
Le crisi e la rottura dell’organizzazione aziendale con il PCI napoletano (Cap.5)
L’emarginazione della sezione di fabbrica(Cap.6)
IL DECOLLO (Cap.7)
Walter Veltroni e Fabio Mussi(Cap.8)
La RICERCA SOCIOLOGICA e i lavoratori(Cap.9)
Epilogo (Cap.10)
NEL CASSETTO DEL DIMENTICATOIO
La ricostruzione di alcune grandi, piccole storie di protagonisti di un’epoca
NAPOLI e il Partito Comunista (01)
Le Cooperative degli ex detenuti (02)
La città,il dramma del terremoto e la strategia eversiva (03)
I movimenti di lotta per il lavoro (04)
Piano per il lavoro, le liste e le cooperative (05)
I finanziamenti ai progetti (06)
Lo scandalo. Il meccanismo della truffa delle cooperative dei detenuti (07)
I personaggi e i provvedimenti della magistratura (08)
Il partito comunista napoletano e le sue responsabilità (09)
Le lacerazioni e la discussione nel partito (010)
La Legge 285 e le cooperative di Servizio (011)
Lo scandalo delle assunzioni alla Provincia di Napoli (012)
La rivincita sul moralismo dei comunisti (013)
Antonio Bassolino e “La Terra Nostra” (014)
_________________________________________________________________
Introduzione
La storia del nostro Paese è un susseguirsi accelerato di eventi che coprono, con rapida successione, capitoli importanti che per decenni hanno determinato la vita reale della società e quindi degli uomini. Alcune di queste vicende – come quella dei comunisti, non dei dirigenti e del partito, di cui si occupano gli storici, ma dei milioni di uomini e donne italiani che ne hanno fatto la storia – ogni tanto il sistema mediatico le ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica.
Alla rievocazione del centenario della nascita del PCI e alla scomparsa di Emanuele Macaluso è stato dato ampio spazio: anche i grandi giornali nazionali hanno pubblicato fascicoli e libri sulla storia remota e recente del partito. (2)
Di questo ritornare a parlare dei comunisti italiani è complice anche il Covid, il troppo tempo speso nell’isolamento ha consentito di ricordare e ricostruire vicende lontane. Tante piccole e grandi storie pubbliche e private vissute in prima persona da gente non più giovanissima, e mai del tutto rimosse dalla memoria.
Sulla storia del PCI napoletano si è scritto e parlato molto; è probabile che le copie dei nuovi libri usciti di recente finiranno presto sulla bancarella di don Gennaro a San Biagio dei Librai, dove si riciclano le biblioteche private di tanti ex comunisti napoletani e appassionati di storia e politica.
Se poi si leggono le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da Antonio Bassolino sulle mitiche figure operaie delle fabbriche napoletane, la sensazione è che, sul palcoscenico della memoria, dopo oltre un quarto di secolo, sia rimasta solo una scenografia già vista, neppure ritoccata.
Lo scopo di questa nota di poche pagine, invece, è ricostruire una storia minore di cui nessuno ha mai scritto: le vicende del gruppo dirigente comunista Aeritalia degli anni Settanta e Ottanta.
Leonardo, nome odierno della storica azienda aeronautica Aeritalia, è oggi una multinazionale conosciuta e considerata nell’immaginario collettivo un modello positivo d’industrializzazione. Sarà anche vero, ma i fatti qui narrati risalgono al periodo in cui Aeritalia muoveva i primi passi verso quella trasformazione in grande gruppo industriale che è oggi.
Lo sviluppo dell’azienda era alimentato da importanti investimenti pubblici – Aeritalia era un’industria a partecipazione statale – e da migliaia di nuove assunzioni negli stabilimenti di Napoli, Torino e Nerviano.
Gli anni Settanta e Ottanta furono un’epoca in cui migliaia di giovani italiani trovarono accesso alle grandi industrie pubbliche. Per la prima volta, dopo il boom economico, l’incremento dell’occupazione riguardò anche le regioni meridionali e la Campania.
Nella prima fase, agli inizi degli anni Settanta, le fabbriche metalmeccaniche – trasporti, cantieristica, agroalimentare, siderurgia, auto e le nascenti industrie aeronautica ed elettronica – si erano riempite soprattutto di operai. Negli anni successivi, a cavallo tra i due decenni, le assunzioni di massa si estesero anche a ingegneri, tecnici, diplomati e laureati.
Era la prima vera risposta della classe politica e dell’industria pubblica italiana alle aspettative giovanili e alla domanda di lavoro qualificato, conseguente alla scolarizzazione di massa.
Molti dei giovani assunti, oltre a essere scolarizzati, avevano alle spalle esperienze di militanza politica in contesti sociali fortemente conflittuali. Il contatto con il mondo operaio rese inevitabile l’avvicinamento di un gran numero di loro al PCI e alle sue organizzazioni di fabbrica.
In Campania, Aeritalia e, in misura minore, l’Olivetti di Pozzuoli e la Selenia del Fusaro furono tra le prime grandi aziende pubbliche e private ad aprire i cancelli a tanti giovani diplomati e laureati napoletani.
Per molti questo significò la possibilità di non trasferirsi nel Nord industrializzato, di avere un lavoro gratificante e, per la prima volta, l’opportunità di fare esperienze formative internazionali anche in grandi gruppi industriali mondiali.
Tutto questo senza lasciare la città, le famiglie e gli amici.
Questo rinnovamento dell’industria e l’accesso delle nuove generazioni al lavoro avrebbero potuto rappresentare anche un’occasione per la classe dirigente meridionale e per i partiti di aggiornare la rappresentanza politica. Ma già prima delle inchieste della magistratura era evidente che quella classe dirigente non era più adeguata a governare la modernizzazione del Paese.
La vicenda del gruppo dirigente della sezione PCI Aeritalia è uno spaccato di questo scenario. Il suo epilogo mostra come il partito comunista napoletano, dopo un decennio di crescita e successi politici ed elettorali, negli anni Ottanta si avviasse a diventare un soggetto politico simile a quelli di cui era stato, fino ad allora, alternativa.
Nei gruppi dirigenti provinciali, il confronto politico e le decisioni amministrative erano sempre più condizionati da ambizioni personali, carriere e conservazione di equilibri frutto di estenuanti mediazioni.
La pratica del potere – con la gestione della ricostruzione post-terremoto e una presenza consolidata nelle istituzioni – aveva avviato quella “mutazione genetica” del PCI campano che negli anni successivi avrebbe travolto gran parte della classe politica napoletana di estrazione comunista.
Nel caso di Aeritalia, quella deriva fu la causa della fine traumatica dell’organizzazione comunista di fabbrica.
Dopo un lungo periodo di tensioni con la Federazione comunista napoletana, nel 1986 l’intero gruppo dirigente della sezione PCI lasciò la militanza politica e il partito.
Di quelle vicende restano le copie di Decollo, il giornale della sezione di fabbrica. Quelle recuperate sono oggi digitalizzate e disponibili sul web; la Biblioteca Nazionale di Napoli conserva e cataloga copie originali di tutti i numeri stampati.
Testimonianza di grande interesse è anche il materiale di una ricerca del 1985, promossa dalla sezione PCI di fabbrica: un progetto di indagine sociologica che rappresenta una delle esperienze più significative di quegli anni nell’industria metalmeccanica italiana.
La storia dei comunisti dell’Aeritalia si sarebbe forse esaurita quando il PCI decise di sciogliersi, o forse nel 1993, quando i lavoratori dello stabilimento di Pomigliano d’Arco vissero una lacerante stagione di lotte sindacali. Ma questa è un’altra storia, da ricostruire da altri.
La vicenda della sezione Aeritalia, riproposta in queste pagine, resta ancora oggi ricordata nelle discussioni – non solo nostalgiche – dei lavoratori più anziani, perché ebbe un prologo molto diverso da quello di esperienze analoghe in altre aziende.
I comunisti di quella organizzazione di fabbrica, negli anni successivi, divennero la classe dirigente napoletana dell’azienda e contribuirono alla crescita del gruppo e al successo dei grandi programmi industriali che resero l’aeronautica campana e nazionale leader in Europa. ( Return Indice )
Il PCI e la volontà di riscatto della città.
Può anche non esserci un luogo da raggiugere, ma il movimento in una direzione cambia ugualmente il mondo. Claudio Lolli |
Alla prima metà degli anni Settanta, con l’epidemia di colera e l’esito del referendum sul divorzio, per la Democrazia Cristiana e i partiti che governavano la città si aprì una fase di profonda crisi politica. Una crisi che, nel biennio ’75-’76, avrebbe portato il PCI napoletano al miglior risultato elettorale della sua storia.
Napoli elesse sindaco Maurizio Valenzi, e molte città della provincia ebbero per la prima volta dei comunisti come primi cittadini. Il successo della Festa dell’Unità provinciale alla Mostra d’Oltremare, subito dopo le amministrative del ’75, e quello straordinario della Manifestazione nazionale dell’anno successivo dimostrarono quanto fossero cresciuti in pochi anni il consenso, la partecipazione dei militanti e la capacità organizzativa del partito napoletano.
( Vedi Video – Napoli Festival Unità 1976 )
Dal 4 al 19 settembre 1976, per la prima volta, la grande manifestazione dei comunisti italiani si svolse al di sotto di Roma. Per due settimane centinaia di migliaia di napoletani affollarono l’immensa area allestita a Fuorigrotta.
Spazi mai utilizzati prima in città vennero aperti alla cultura, alla politica, al cinema, all’arte, alla musica, al ballo, con aree dedicate ai giovani e perfino spazi per l’intrattenimento dei bambini.
Tre i luoghi simbolo recuperati e restituiti al pubblico: il Mediterraneo, il Teatro dei Piccoli e l’Arena Flegrea, ripulita nei mesi precedenti dal lavoro volontario dei militanti. Sul palco si alternarono nomi di rilievo assoluto: Eduardo De Filippo e Luigi Nono, Napoli Centrale, Sergio Bruni, Severino Gazzelloni, Rino Gaetano, Lucio Dalla, Antonio Casagrande, Marina Pagano, Achille Millo. E poi gli ospiti internazionali, con le voci dei paesi sudamericani e lo straordinario concerto degli Inti Illimani.
«Nuova impetuosa avanzata del PCI» titolò a tutta pagina l’Unità. Il giornale sanciva così il successo dei dirigenti napoletani. Durante la Festa il partito mobilitò migliaia di volontari, molti giovani, operai e militanti delle sezioni del Centro Storico che gestirono dibattiti, concerti, film e mostre nei sedici giorni della kermesse.
La città del sindaco Maurizio Valenzi, che l’anno prima aveva guidato i comunisti alla conquista di Palazzo San Giacomo, mostrava al Paese un volto nuovo: Napoli era capace di ospitare oltre un milione di persone provenienti da tutta Italia.
Nei dibattiti si confrontarono figure come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Pio La Torre, Norberto Bobbio. Ma l’immagine che resta è quella del comizio conclusivo di Enrico Berlinguer, la sera del 19 settembre: una folla immensa e le parole che ancora oggi colpiscono per forza evocativa:
«Il Festival ha saputo dare voce a una Napoli in gran parte ignorata, al potenziale produttivo di questa città, al suo patrimonio artistico, alle sue energie culturali e scientifiche, dando coscienza di ciò che questa città avrebbe potuto dare e potrà dare per lo sviluppo del Mezzogiorno e per l’avvenire di tutta la nazione italiana».
Con quella Festa, in città e in provincia, il PCI usciva dall’isolamento politico dei decenni precedenti.
Protagonisti del successo furono i giovani che avevano gestito l’organizzazione e le tante attività, insieme alle migliaia di operai delle aziende napoletane che, nei mesi precedenti, con il lavoro volontario avevano allestito gli spazi fieristici.
I successi elettorali e organizzativi avrebbero richiesto un rapido rinnovamento generazionale del gruppo dirigente e un’apertura decisa a quei segmenti di società che speravano in un cambiamento reale della città.
Nelle fabbriche metalmeccaniche, però, la presenza organizzata del PCI era ancora radicata soprattutto nei solidi legami con gli operai, costruiti nei decenni dello scontro duro con il padronato. Questo contesto non favoriva il rinnovamento delle strutture di base né un’integrazione reale tra generazioni di lavoratori.
Nell’area industriale di Pomigliano d’Arco, dalla seconda metà degli anni Settanta, le grandi imprese metalmeccaniche pubbliche avviarono una complessa ristrutturazione per riposizionarsi sui mercati. In poco tempo le fabbriche e il territorio cambiarono volto.
Le aziende napoletane, per rinnovare i prodotti e innalzare la soglia tecnologica, ammodernarono impianti e sistemi produttivi. Per la prima volta furono significativamente estese le aree tecniche e di progettazione, trasformando in profondità l’organizzazione del lavoro e le relazioni industriali.
Per interpretare quelle trasformazioni, i partiti di sinistra e il sindacato avrebbero dovuto allargare i gruppi dirigenti a quelle nuove figure professionali. Invece, nelle fabbriche, la rappresentanza politica e sindacale restava ancorata al prestigio e all’esperienza dei vecchi militanti. Tra gli operai era diffusa una persistente diffidenza verso tecnici e impiegati.
Non aiutava il meccanismo d’ingresso dei nuovi assunti: le assunzioni degli operai erano sostanzialmente controllate dal sistema dei partiti e dal potere crescente del sindacato, attraverso le commissioni di collocamento, la legge 285 del 1977 per l’occupazione giovanile e i movimenti dei disoccupati organizzati. Le aziende selezionavano invece in autonomia, e quasi esclusivamente, diplomati e laureati; ma nelle imprese a partecipazione statale anche queste scelte risentivano delle ingerenze politiche.
L’ingresso di un gran numero di giovani laureati e diplomati portava in fabbrica napoletani politicizzati, spesso provenienti da esperienze nei quartieri, nelle scuole, nelle università. Alcuni avevano militato in contesti radicali non sempre lontani da quegli ambienti che alimentavano il terrorismo, in quegli anni impegnato a penetrare tra i lavoratori delle grandi industrie.
Per questo l’attenzione dei comunisti verso i gruppi dirigenti delle fabbriche strategiche fu altissima: altrettanto alto era il rischio che l’eversione vi trovasse varchi. La scelta del PCI e del sindacato di isolare i terroristi nelle fabbriche fu decisiva per la sconfitta del fenomeno e per la difesa della democrazia.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, quando i movimenti giovanili antagonisti raggiungevano dimensioni di massa, i gruppi dirigenti di fabbrica dovettero salvaguardare le condizioni di agibilità politica conquistate, includere le nuove generazioni e orientarne la volontà di cambiamento verso la trasformazione dei rapporti politici e sociali, nella fabbrica e nella società italiana.
Il PCI procedeva al rinnovamento con prudenza e continuità: la linea era cooptare nei gruppi dirigenti non solo operai, mantenendo un saldo legame con il partito centrale, per evitare derive radicali che avrebbero favorito il terrorismo.
Il modello di riferimento era quello delle organizzazioni dell’Italsider e dell’Alfa Sud, che fino a quel momento avevano garantito risultati politici e organizzativi importanti, anche sul piano elettorale nella provincia di Napoli:
-
organizzazioni di partito forti, coincidenti con quelle della CGIL;
-
dirigenti politici operai e impiegati formati nel PCI;
-
orientamenti rivoluzionari più di facciata che di sostanza, utili a includere le giovani generazioni;
-
concentrazione sugli spazi di potere del sindacato per gestire il consenso;
-
delega alle strutture esterne del partito e del sindacato delle scelte più delicate e dei rapporti con il management.
Il PCI e la CGIL garantivano così la continuità del sistema, cooptando negli organismi cittadini e regionali i militanti e i sindacalisti affidabili di quelle fabbriche che tenevano salda l’organizzazione e trainavano consenso politico ed elettorale.
Per tutti gli anni Settanta e Ottanta questo modello funzionò, diventando una corsia preferenziale di accesso per militanti e dirigenti comunisti dell’Italsider e dell’Alfa Sud verso le posizioni apicali del partito e delle istituzioni.
Ma la società e l’industria napoletana in quegli stessi anni stavano cambiando rapidamente sotto l’effetto della prima fase della deindustrializzazione. Quel rapporto sbilanciato del PCI con le organizzazioni di Italsider e Alfa Sud, considerate ancora modelli d’industria da difendere a ogni costo, si rivelò uno degli errori più gravi del partito napoletano. Un errore le cui conseguenze sarebbero ricadute sull’intera città negli anni successivi.( Return Indice )
LA SEZIONE COMUNISTA AERITALIA
Agli inizi degli anni Settanta i dipendenti del gruppo Aeritalia erano 7.500, di cui 2.800 al Sud, con due stabilimenti a Capodichino e Pomigliano. La presenza comunista in fabbrica era ridotta a sette iscritti, mentre le assunzioni restavano rigidamente controllate dai notabili democristiani dell’area pomiglianese. In pochi anni, tuttavia, i vecchi militanti dell’Aerfer – operai fortemente radicati sul territorio e di indubbio spessore morale, come Antonio Oratino e Antonio Mele – riuscirono a strutturare una cellula del PCI.
La debolezza iniziale era il riflesso di un altro radicamento: quello dei militanti del PSIUP, presenti dal 1968 nel Consiglio di fabbrica. Si trattava di operai e impiegati che, durante la vertenza del ’73 e negli anni precedenti, si erano avvicinati a Tonino Chegai, sindacalista Fiom che seguiva con ostinazione le vicende Aeritalia. Quella generazione aderì con lui al PSIUP, trovando in Berardo Impegno il proprio riferimento politico. Nel 1972, escluso il più rappresentativo, Michele Perrotti, confluirono nel PCI; alcuni passarono invece al Psi.
Con l’ingresso nel Consiglio di fabbrica di giovani ingegneri provenienti dalla Direzione Tecnica di via Marina, di militanti del territorio pomiglianese e di operai politicizzati dalle lotte sociali, il peso della vecchia guardia si ridusse progressivamente, pur mantenendo per anni le posizioni conquistate.
Nel frattempo, arrivava in azienda la generazione sessantottina: ingegneri aeronautici, progettisti, tecnici. Molti erano stati inviati dall’azienda negli Stati Uniti, per acquisire esperienze e competenze necessarie a inserirsi nei nuovi progetti aeronautici internazionali. Aeritalia si preparava a diventare una vera azienda aeronautica: nacque la Direzione Tecnica, con uffici prima ad Arzano, poi a Napoli, nel palazzo Fontana di via Marina.
Dalla seconda metà degli anni Settanta anche la Direzione Tecnica fu trasferita a Pomigliano d’Arco. Una scelta legata all’avvio del primo programma di produzione con Boeing, che richiedeva il contributo di quei tecnici che in passato erano stati tenuti lontani dalla produzione, forse per evitarne il contatto diretto con le lotte operaie. In realtà, quella generazione era già “contaminata” dal male oscuro della politica: una passione totale, inevitabile. Così, quando gli uffici tecnici furono portati nello stabilimento ex Aerfer, il PCI e la CGIL si ritrovarono tra le proprie fila decine di nuovi militanti, politicamente formati e con un alto livello di scolarizzazione.
A dieci anni dalla nascita, nel 1979, i dipendenti del gruppo Aeritalia erano saliti a 11.000, di cui 6.000 al Sud e oltre 1.000 tra impiegati e tecnici. Nel 1980 a Pomigliano d’Arco si costituì la sezione di fabbrica del PCI, con un gruppo dirigente autonomo: fino ad allora esisteva soltanto una cellula dipendente dalla struttura territoriale.
Dopo gli accordi con i colossi aeronautici americani l’azienda crebbe rapidamente. Migliaia di nuovi operai e tecnici arrivarono in fabbrica, venne assorbito lo stabilimento ex Fag di Casoria e fu realizzato il nuovo impianto di Foggia.
«L’esperienza dell’Aeritalia va valorizzata – affermò Vincenzo Mattina, a nome dei sindacati, durante il decennale dell’azienda a Capodichino – per dimostrare al mondo che a Napoli e nel Mezzogiorno ci sono lavoratori capaci di affrontare lavori complessi e di grande responsabilità».
La sezione di fabbrica cresceva insieme all’azienda. Oltre alla presenza nei reparti produttivi, si consolidava anche negli uffici tecnici e tra gli impiegati. Il gruppo dirigente era frutto di consultazioni congressuali rigorose, che garantivano l’equilibrio tra operai e ingegneri, tecnici e quadri, fino a comprendere persino alcuni manager.
Diversi quadri di fabbrica furono inviati per mesi alla scuola politica del PCI di Frattocchie, diretta da Renzo Lapiccirella. Altri furono impegnati nella Scuola di Amministrazione Pubblica organizzata dai comunisti napoletani a Castellammare di Stabia, sotto la direzione di Antonio Scippa, assessore al bilancio del Comune di Napoli, in vista di futuri incarichi istituzionali. La redazione napoletana de «l’Unità» decise perfino di avere in azienda un corrispondente interno: un ingegnere della Direzione Tecnica.
L’organizzazione di fabbrica poteva contare su oltre 400 iscritti, una rete capillare di militanti e simpatizzanti distribuiti nei reparti produttivi e nelle aree di progettazione di Pomigliano, Casoria e Capodichino. Non mancavano le contrapposizioni di opinione, ma raramente il confronto degenerava in rotture personali o politiche. ( Return Indice )
L’AZIENDA
Aeritalia nacque a Napoli nel novembre 1969 dalla fusione di Aerfer, Salmoiraghi e Fiat Aviazione. La decisione fu presa dal Parlamento dopo la relazione interparlamentare sullo stato dell’industria aeronautica nazionale, presieduta da Giuseppe Caron.
Il gruppo era controllato in parti uguali da Fiat e IRI, con sede ufficiale e direzione generale a Napoli. I due soci continuarono a gestire i propri stabilimenti fino al 31 dicembre 1971, quando confluirono in Aeritalia i siti di Pomigliano d’Arco, Capodichino, Caselle Nord e Sud e Nerviano, con 8.799 dipendenti. In realtà la Fiat rilasciò i suoi impianti solo nel 1974, quando uscì definitivamente dalla società.
Il mercato aeronautico si apriva a grandi prospettive di sviluppo. Renato Bonifacio e Fausto Cereti puntavano a trasformare la società – nata dalla fusione tra la vecchia Aerfer e Fiat Aviazione – in una moderna azienda aeronautica. Per riuscirci servivano risorse pubbliche, scelte industriali rischiose, investimenti ingenti. Servivano anche fiducia e sacrifici. Il management cercava un modello condiviso di governo dell’azienda: il peso politico e di mobilitazione del sindacato e del PCI era tale da rendere indispensabile il loro coinvolgimento nel progetto.
Per le maestranze si profilava un futuro occupazionale stabile, in un comparto industriale destinato a crescere. Per gli operai, la qualità del lavoro era diversa da quella delle linee di montaggio dell’Alfasud o dell’Italsider. Tecnici e progettisti sapevano che partecipare a grandi programmi industriali significava aprirsi a carriere più ampie e a esperienze nei grandi gruppi aeronautici internazionali.
Le ricadute sul territorio furono decisive: dall’occupazione di giovani diplomati e laureati allo sviluppo dell’indotto aeronautico. Un tessuto di piccole aziende, spesso nate per iniziativa di ex dipendenti Aeritalia, si sviluppava a Napoli e nella sua provincia.
Renato Bonifacio L’uomo, il Manager
La narrazione delle vicende che fecero di Napoli, dagli anni Settanta e nel successivo ventennio, il motore trainante dell’industria aeronautica nazionale ha un protagonista centrale: Renato Bonifacio.
Arrivò in Aeritalia nel 1974, poco prima che la Fiat uscisse dalla società. Torino aveva continuato a gestire i propri impianti fino a quando prese atto che il progetto di un’azienda aeronautica nazionale a partecipazione paritetica pubblico-privata era fallito.
Erano anni tumultuosi per il Paese. Dopo il referendum sul divorzio, la società viveva profonde trasformazioni; il Mezzogiorno era una polveriera. Tre governi si alternarono in un solo anno, la strategia della tensione insanguinava le piazze, il terrorismo brigatista cresceva. Il Governo cercava una risposta al disagio diffuso: un sistema di imprese in un settore innovativo, in grado di generare occupazione e sviluppo industriale al Nord come nel Sud.
Renato Bonifacio, nato a Castellammare di Stabia nel 1923, era l’uomo chiamato a guidare quella sfida. Figlio unico di Roberto, direttore dei Cantieri navali stabiesi, si laureò a soli ventuno anni in Ingegneria meccanica e navale alla Federico II con 110 e lode. Dopo un primo periodo accademico, maturò esperienze alla Franco Tosi, alla Westinghouse, quindi in ENI, Olivetti e infine in Finmeccanica. Negli anni Cinquanta aveva vissuto un passaggio decisivo: la collaborazione con la CISIM, la Commissione incaricata di tracciare il piano di reindustrializzazione postbellica, dove si confrontò con figure come Guido Corbellini e Pasquale Saraceno e con i consulenti americani della Stanford Research Institute. Quelle esperienze, sommate ai rapporti costruiti negli Stati Uniti e alla collaborazione con Mario Marconi, ne fecero un manager di Stato in grado di trattare da pari con Andreotti e Prodi.
Scelto dalla politica, forte di relazioni internazionali e di un curriculum eccezionale, Bonifacio subentrò al generale Gastone Valentini, che aveva garantito i rapporti con l’Aeronautica Militare. Al suo arrivo Aeritalia contava 8.799 dipendenti, di cui solo 190 in progettazione al Sud. La situazione era disastrosa: sei stabilimenti in tre province, pochi programmi attivi, crisi di liquidità dopo l’uscita della Fiat. Il G-91 era a fine corsa, l’F-104 in chiusura, il Tornado ancora in discussione, il G-222 solo un prototipo. Restavano i pannelli per McDonnell Douglas, fabbricati a Pomigliano.
Dopo cinque anni dalla Commissione Caron, poco era stato fatto. In ambito IRI si decise di cambiare passo. Bonifacio, allora condirettore generale di Finmeccanica, fu inviato in Aeritalia come amministratore delegato; nel 1979 ne divenne presidente.
Una ricostruzione di quegli anni la diede lui stesso nel 1986, durante una drammatica audizione parlamentare alla Sala della Lupa. Davanti a ministri e parlamentari – tra loro Paolo Cirino Pomicino e Giuliano Amato – sorprese affermando che la politica doveva limitarsi a definire obiettivi e indirizzi, lasciando ai manager la gestione delle imprese. Rivendicò la scelta di privilegiare accordi con i grandi gruppi americani rispetto all’industria europea: una decisione più industriale che politica, motivata dall’assenza di risorse governative sufficienti per un ingresso in Airbus. Se fu un errore restarne fuori, disse, sarebbe stato altrettanto inutile parteciparvi senza un ruolo significativo.
Difese con orgoglio l’intesa con Aerospatiale per ATR, ritenuta compatibile con gli interessi italiani, mentre ricordava il Tornado come garanzia per gli stabilimenti piemontesi. Per Napoli occorreva una produzione civile, e la collaborazione con Boeing ne rappresentò la chiave.
Il sistema dei partiti, però, condizionava ogni scelta. Democristiani e socialisti si dividevano IRI ed EFIM e lo scontro bloccò il progetto di un polo unico dell’aeronautica. Nella stessa audizione, Bonifacio, Prodi e Stefano Sandri dell’EFIM ne sottolinearono l’urgenza, ma l’iniziativa fu fermata dal governo Craxi. «Non fare il polo nazionale dell’aeronautica è stato un crimine», commentò Bonifacio l’anno successivo.
Nel frattempo si lavorava all’integrazione con Selenia, azienda dell’elettronica di difesa con sede a Napoli. Il progetto fu completato nel 1990 con la nascita di Alenia, sotto la presidenza Prodi. Bonifacio era scomparso due anni prima, lasciando a Fausto Cereti il compito di portare a termine l’operazione.
Dal 1974 al 1988 aveva trasformato Aeritalia da azienda fragile e indebitata a gruppo capace di operare in tutti i settori dell’aerospazio. Nel novembre 1987, nella sua ultima audizione parlamentare, difese con fierezza la scelta di trasferire il G-222 da Torino a Napoli: «fu un’impresa coraggiosa che rasentò l’irresponsabilità», disse, «ma fu anche la premessa per creare al Sud un gruppo di competenze pari a quello di Torino».
Quel trasferimento era stato sostenuto anche dalla pressione operaia: nel 1973 i lavoratori organizzarono una marcia da Pomigliano a Napoli per garantire un futuro agli stabilimenti. La protesta scosse la politica e permise di ottenere l’appoggio del governo e la collaborazione con Boeing.
Nacque così la linea del G-222 a Pomigliano, con l’arrivo di ingegneri da Torino e l’assunzione di giovani laureati, molti dei quali inviati a Seattle per il programma 7X7. Nel 1978 l’accordo con Boeing si concretizzò nella partecipazione al B-767: Aeritalia assunse il 15% del programma, con la progettazione e produzione delle superfici mobili alari e del timone di direzione in fibra di carbonio.
La collaborazione con gli Stati Uniti, pur controversa, garantì all’azienda un salto tecnologico e gestionale decisivo per i futuri programmi internazionali. La Direzione Tecnica di Pomigliano fu messa alla prova anche con la commessa libica per venti G-222, bloccata dagli americani per il veto all’export dei motori. La scelta di rimotorizzare con i RR Tyne fu rischiosa, ma portata a termine con successo.
Quella vicenda rappresentò uno snodo importante per l’azienda, lo stabilimento di Pomigliano D’Arco si avviava a essere una vera industria aeronautica e con Fausto Cereti si affermò quella nuova classe dirigente che avrebbe gestito nei due decenni successivi l’industria aeronautica italiana.
Nel 1987, in Aeritalia, come ebbe modo di affermare Bonifacio, si raggiunsero i 15.000 dipendenti, dei quali oltre 7.000 tecnici e 5000 tra diplomati e laureati, di questi circa 3.000 a Napoli e Foggia. ( Return Indice).
Fausto Cereti: «Ho svolto un’attività che mi appassionava».
L’ingegnere genovese arrivò a Napoli nel 1969 in Aeritalia, con la carica di assistente al Direttore Tecnico Centrale. Pochi sapevano allora – e pochi lo sanno ancora oggi – che quel giovane alto ed elegante era il figlio del Magnifico Rettore dell’Università di Genova dal 1948 al 1962, Carlo Cereti. Il professore aveva rifiutato il giuramento alla Repubblica Sociale, firmato “l’appello antifascista del ’44” e per questo era stato condannato a morte come traditore dai fascisti di Salò. Morì nel 1995, e una rotonda a Genova ne ricorda la figura.
Fausto Cereti, nato a Genova nel 1931, è stato un manager di lungo corso. Laureato in ingegneria meccanica e aeronautica, nel 1954 entrò nella divisione aviazione della Fiat, di cui nel 1960 divenne responsabile per la programmazione. Passò poi in Aeritalia, società del Gruppo IRI: nel 1973 fu nominato direttore del neonato Gruppo Velivoli da trasporto, nel 1975 anche vicedirettore generale. Nel 1978 assunse la carica di Direttore Generale e, due anni dopo, di Vicepresidente e Amministratore Delegato.
Il 10 luglio 1990, in uno dei suoi primi interventi in una commissione istituzionale, Cereti difese la strategia condivisa con Renato Bonifacio, rivendicando il riequilibrio tra produzioni civili e militari raggiunto in Aeritalia:
«Quella arriva oggi a sfiorare il 50 per cento della produzione complessiva dell’azienda. È il risultato di più di vent’anni di sforzi pesantissimi, con l’impiego dell’80 per cento dei profitti e dei margini disponibili negli investimenti sui velivoli civili, senza contare il notevole aiuto fornito dallo Stato attraverso le leggi di finanziamento, ultima fra tutte quella sulla reindustrializzazione che ci vede oggi impegnati in un programma di investimenti di più di mille miliardi».
In quegli anni Cereti non era più soltanto il braccio operativo di Bonifacio, ma il manager che aveva gestito gli accordi con McDonnell Douglas, e definito i contenuti dei rapporti industriali con Boeing e poi con Aerospatiale per il programma ATR.
Nel dicembre 1990 divenne presidente di Alenia, la nuova società di Finmeccanica con 29.682 dipendenti, nata dalla fusione di Aeritalia e Selenia. Amministratore delegato fu nominato Enrico Gimelli, vicepresidente Cesare Previti, figura nota alle cronache politiche e giudiziarie. La sua designazione rappresentava l’ingerenza degenerata della politica e delle lobby economiche, e confermava i timori che Cereti aveva espresso in privato sulle conseguenze negative di uno strapotere esterno al mondo industriale.
Quando Bonifacio, insieme ai vertici di Finmeccanica e dell’IRI, decise di trasferire la direzione generale a Roma, Cereti e Ciro Cirillo – entrambi tra i manager più vicini a Bonifacio – pur consapevoli della necessità di centralizzare i vertici di un grande gruppo pubblico nella capitale, percepivano i rischi di una crescente ingerenza della politica romana sugli equilibri interni e sulle scelte industriali.
Il trasferimento non fu semplice: a Napoli sindacati e società civile reagirono con forza, rallentando lo svuotamento degli uffici locali. Formalmente l’operazione si concluse solo nel 1990, quando Alenia fu costituita direttamente con sede a Roma; a Piazzale Tecchio rimase la sola sede legale di Aeritalia.
Fausto Cereti continuò l’opera di Bonifacio in un contesto romano reso sempre più scivoloso dall’ondata di Tangentopoli e dall’invadenza della politica nell’industria pubblica.
Già nel 1980 il PSI aveva imposto ad Aeritalia la nomina di Amedeo Caporaletti a condirettore. Proveniva da Fincantieri, dove era stato vicedirettore generale, e prima ancora dalla Breda. Legato agli ambienti socialisti, e in particolare al ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis, era stato indicato non appena quest’ultimo aveva assunto l’incarico. La sua funzione era bilanciare la posizione di Cereti: se il Polo nazionale dell’aeronautica non era stato costituito, restava comunque da garantire un equilibrio tra i poteri dei gruppi IRI e EFIM, e tra DC e PSI.
Meno di tre anni dopo, la magistratura aprì un’inchiesta sulla costituzione di Alenia e sulla fusione tra Aeritalia e Selenia. Furono coinvolti Fabiano Fabiani, amministratore delegato di Finmeccanica e figura di peso della DC, Fausto Cereti, Enrico Gimelli e, curiosamente, anche il discusso faccendiere Giovanni Bisignani, allora considerato un grande manager pubblico esperto di trasporto aereo. L’inchiesta si concluse con un nulla di fatto.
Intanto Cereti consolidava i rapporti con la classe politica e con figure come Fabiano Fabiani, alla guida di Finmeccanica dal 1985, e Romano Prodi, presidente dell’IRI dal 1982 al 1994, con l’eccezione della breve parentesi di Franco Nobili.
Nel marzo 1996 Cereti fu nominato presidente di Alitalia dal presidente dell’IRI Michele Tedeschi. Rimase in carica fino al 2003, attraversando indenne vicende che avrebbero travolto i suoi successori alla guida della compagnia di bandiera.
Fino a quando lavorò in Aeritalia, Cereti visse a Napoli. In una delle ultime interviste, prima del ritiro a vita privata, dichiarò:
«Quando dovevo iscrivermi all’università, mi domandavo se fosse possibile scegliere una disciplina che mi desse la possibilità di essere remunerato per svolgere un’attività che mi appassionasse. Ho avuto la fortuna di vivere in un settore e di esercitare una professione che, sotto questo profilo, mi ha offerto grandi soddisfazioni. Sono riuscito ad andare in pensione, dopo 48 anni e mezzo di lavoro, meravigliato che mi pagassero ancora lo stipendio, e ho continuato ad avere ancora delle soddisfazioni».
Parole che rivelano la personalità di uno dei protagonisti di un’intensa stagione dell’industria pubblica, che in pochi decenni portò l’Italia, uscita distrutta dalla guerra, a figurare tra i Paesi più sviluppati del mondo. ( Return Indice)
La Politica. Gli anni bui dall’80 al 90
Politicamente, all’inizio degli anni ’80 si chiude la stagione del governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti con l’appoggio del PCI.
Il Partito Comunista torna all’opposizione con una linea di dura critica, mentre la CGIL riprende una conflittualità sindacale, seppure in forme diverse da quelle del 1975.
L’economia italiana mostra segnali contraddittori: aumenta il deficit commerciale per via delle importazioni petrolifere, a fronte però di una ripresa significativa. L’inflazione resta elevata (oltre il 20% nel 1980), mentre il debito pubblico cresce a causa degli interessi pagati sui titoli di Stato. Nel 1981 una tempesta monetaria si abbatte sulla lira, svalutata del 6% rispetto alle altre valute dello SME.
Dopo la fine dell’esperienza di solidarietà nazionale, le elezioni del 1979 registrano una crescita di DC e PSI, e un calo del PCI. Sono anche gli anni in cui Bettino Craxi cerca di conquistare un ruolo centrale, dopo che il Congresso socialista del 1978 aveva adottato la linea dell’“alternativa”, cioè un governo delle sinistre guidato dal PSI con la DC relegata all’opposizione.
All’interno della DC l’area “Zaccagnini” perde peso. Il partito resta diviso tra chi vorrebbe ancora mantenere un dialogo con il PCI e chi intende chiudere definitivamente quella fase.
Tra il 1979 e il 1980 si succedono due governi Cossiga: il primo (DC, PSDI, PLI) e il secondo (DC, PSI, PRI). In mezzo cade il Congresso DC del febbraio 1980, in cui prevale la linea del cosiddetto “preambolo” (Forlani, Donat Cattin, Piccoli): una dichiarazione che escludeva ogni alleanza col PCI e apriva invece la strada all’intesa con il PSI di Craxi. Nel secondo governo Cossiga entrano infatti nove ministri socialisti.
Mentre il governo Cossiga è in crisi, scoppia la vertenza Fiat (settembre-ottobre 1980): 15.000 licenziamenti, seguiti da una mobilitazione sindacale che si conclude con una pesante sconfitta e 23.000 lavoratori in mobilità. È l’inizio della fase discendente del sindacato.
Segue il governo Forlani (ottobre 1980 – maggio 1981), travolto dal terremoto in Irpinia e dallo scandalo della loggia massonica P2, rete segreta che coinvolgeva politici, militari, imprenditori, giornalisti e funzionari pubblici.
Nel giugno 1981 arriva il governo Spadolini, primo esecutivo della Repubblica non guidato dalla DC ma da un repubblicano. Il terrorismo resta alto: nel solo 1981 si contano 791 attentati e 24 morti. L’attività di governo si concentra su quattro emergenze:
-
economica (costo del lavoro, stangata fiscale),
-
morale (scandalo P2),
-
civile (sicurezza delle istituzioni),
-
internazionale (missili Cruise, missione in Libano).
Al Congresso DC del 1982 la segreteria passa a Ciriaco De Mita. Segue un secondo governo Spadolini (agosto-novembre 1982), breve e segnato dagli scontri tra i ministri economici Andreatta e Formica.
Nel dicembre 1982 si forma il governo Fanfani, che dura fino all’estate 1983. Da ricordare l’“Accordo Scotti” (gennaio 1983), che per la prima volta modifica il meccanismo della scala mobile.
Alle elezioni del 26 giugno 1983 la DC subisce una sconfitta, crescono PRI e PSI, cala leggermente il PCI. Compare la Liga Veneta, a scapito della DC.
Craxi diventa presidente del Consiglio e guida il governo (1983-1987) sostenuto dal pentapartito. Il suo esecutivo si caratterizza per il tentativo di rafforzare il ruolo dell’esecutivo e per una presenza più incisiva dell’Italia sulla scena internazionale.
Tra i momenti più significativi:
-
febbraio 1984: nuovo concordato con la Santa Sede;
-
scontro con CGIL e PCI sulla scala mobile: Craxi vara un decreto di taglio, i comunisti promuovono un referendum (giugno 1985) ma vengono sconfitti;
-
confronto con il Parlamento sul voto segreto e avvio della Commissione Bozzi per la riforma istituzionale;
-
attriti con la magistratura per le indagini sulla corruzione della grande finanza;
-
ottobre 1985: crisi di Sigonella, con il sequestro della nave Achille Lauro da parte di terroristi palestinesi. Craxi si oppone agli Stati Uniti, rivendicando la sovranità italiana.
Intanto si allarga il mercato televisivo: il decreto legge del 20 ottobre 1984 (poi convertito nel febbraio 1985) consente le trasmissioni nazionali delle reti private, avvantaggiando il gruppo Fininvest.
Sul fronte economico, il ministro Visentini (PRI) tenta una riforma fiscale contro l’evasione, ma la pressione di commercianti e artigiani blocca l’iniziativa: restano squilibri pesanti e nel 1987 il deficit pubblico raggiunge i 113.000 miliardi. La spesa statale, cresciuta negli anni ’70 con sanità, previdenza e istruzione, resta inefficiente e costosa.
Nonostante le difficoltà, dal 1984 l’Italia conosce una ripresa grazie all’export e all’innovazione in alcuni settori. Il sistema economico, sostenuto anche dall’economia sommersa (piccole imprese diffuse nelle province), mostra una vitalità sorprendente.
Lo sviluppo del terziario e la competitività dei prodotti italiani alimentano un certo ottimismo. Ma resta grave la minaccia della criminalità organizzata. Mafia e camorra penetrano negli appalti, nel contrabbando e nel traffico di droga. A farne le spese è Pio La Torre, segretario regionale del PCI e promotore della legge antimafia, assassinato il 30 aprile 1982. Pochi mesi dopo quella legge sarà approvata, introducendo il reato di “associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni illeciti.
Nel settembre 1982 viene ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, già protagonista della lotta al terrorismo.
La storia d’Italia degli anni ’80 sterzava così verso direzioni oscure, tra modernizzazione e degenerazioni del sistema politico e sociale. ( Return Indice)
La crisi dei dirigenti PCI e la Federazione Napoletana
La breve storia della sezione AERITALIA si consumò in questo scenario, quando divenne del tutto evidente che il lavoro politico non poteva ridursi a semplice propaganda o alla rincorsa del consenso utile alle campagne elettorali.
La stagione più significativa del sindacato in Aeritalia si era conclusa con gli anni ’70. Era iniziata alcuni anni dopo la nascita dell’azienda, nell’aprile del 1972, con una grande manifestazione al Cinema Mediterraneo di Pomigliano d’Arco, proseguita con un convegno provinciale a Napoli sul settore aeronautico nel novembre del 1976, e culminata nel momento più alto con la Conferenza dei Tecnici nello stabilimento Aeritalia del giugno 1978, alla quale partecipò Bruno Trentin.
Il risultato più significativo ottenuto dal sindacato aziendale risale al 1977, quando, a conclusione di una lunga vertenza, fu abolito il cottimo. Le attività individuali, pur monitorate dagli operatori Tempi e Metodi, erano valutate nel contesto degli obiettivi dei reparti e delle attività di squadra. Per gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Capodichino si apriva così una nuova stagione, con il trasferimento a Napoli dell’intera linea produttiva del G.222, il cui primo velivolo assemblato al Sud volò da Capodichino il 1° dicembre 1977.
Nel corso degli anni ’70 il sindacato e i partiti di sinistra avevano svolto un ruolo importante nel sostenere i consistenti piani di finanziamento pubblico dei programmi industriali dell’azienda: dalla collaborazione con Boeing, alla rimotorizzazione del G.222 per la commessa libica, fino alla partnership con Aerospaziale per il programma del nuovo turboelica ATR.
Lo scenario delle relazioni industriali mutò radicalmente dopo la Conferenza provinciale della FLM del maggio 1979 sul futuro del comparto aeronautico: con gli anni ’80, lo sviluppo dell’azienda richiedeva una gestione più centralizzata, e al management era sempre meno utile un sindacato di fabbrica che delegava alle strutture centrali la trattazione delle questioni complesse.
Nelle aziende del gruppo, complice la possibilità di gestire spazi di potere acquisiti, il sindacato rinunciava progressivamente a un ruolo orientato agli interessi generali e di prospettiva, concentrandosi invece sul governo di organismi funzionali al consenso, come le commissioni paritetiche o le assunzioni.
La direzione aziendale si rinnovava con giovani manager, come Angelo Guarini, che dirigeva le Relazioni Industriali del GVT e riconosceva ai dirigenti di fabbrica del PCI competenza e rappresentatività, cercando con loro un confronto diretto nella gestione di una grande azienda in rapida trasformazione.
Nessuno rinunciava alle proprie prerogative, eppure i funzionari provinciali del partito responsabili delle organizzazioni di fabbrica mostravano diffidenza, spesso perché esclusi da quel rapporto diretto con l’azienda o perché non attrezzati culturalmente a interpretare situazioni diverse dai paradigmi che avevano imparato a gestire.
Quando il PCI si auto-sciolse nel 1991, rimuovendo il grande contenitore ideologico, emerse chiaramente la satrapia dei funzionari di partito: le loro successive vicende personali dimostrarono quanta ipocrisia e malafede fossero celate nelle loro posizioni dogmatiche. La storia dei comunisti in AERITALIA si colloca tutta entro questa rappresentazione.
L’organizzazione interna continuò a operare in autonomia per alcuni anni, facendo a meno del supporto dei dirigenti della Federazione napoletana. La frattura rimase però sotto traccia fino al 1986, al XVII congresso del PCI napoletano. ( Return Indice )
L’emarginazione
Nelle elezioni politiche del 1979 e del 1983, nelle liste elettorali comuniste furono inseriti un operaio e un ingegnere della Direzione Tecnica AERITALIA. I due non furono eletti, ma ottennero entrambi migliaia di preferenze.
Questi risultati avrebbero dovuto rafforzare il gruppo dirigente della fabbrica; invece, preclusero qualsiasi possibilità per i militanti della Sezione AERITALIA di accedere alle istituzioni della Repubblica. I comunisti dell’AERITALIA non potevano infatti essere candidati al Parlamento, né alle elezioni regionali o comunali delle grandi città, perché rischiavano di essere eletti.
La prerogativa di decidere gli eletti spettava alla Federazione, e non agli elettori. Nel 1984, ad esempio, quando i dirigenti comunisti dell’AERITALIA riuscirono a far approvare una candidatura per le prime elezioni europee – si trattava di un ingegnere dell’azienda – il nome fu cancellato, senza alcuna spiegazione, la notte precedente alla presentazione della lista in tribunale.
Il punto di rottura tra i dirigenti AERITALIA e il Partito si ebbe tuttavia solo nel 1986, con il XVII congresso del PCI, che lacerò profondamente la platea dei militanti napoletani. Si scontrarono ferocemente l’ala ingraiana, guidata da Antonio Bassolino, e quella dei riformisti, il gruppo allora guidato da Giorgio Napolitano.
A Napoli prevalsero gli ingraiani, che non fecero “prigionieri”: furono risparmiati solo i militanti che Napolitano decise di salvare. Molti ritenuti riformisti furono estromessi dagli organismi di governo del partito. Salvatore Vozza, braccio esecutore degli ingraiani e responsabile delle fabbriche, pretese tra le altre esclusioni anche quella della sezione AERITALIA, considerata schierata con i riformisti.
In realtà, non esisteva alcun legame organico dei dirigenti di fabbrica con la “corrente” di Napolitano, i cui fedeli, sebbene politicamente sconfitti, grazie al loro leader riuscirono a ricollocarsi dentro e fuori dal partito.
L’esclusione dei militanti AERITALIA dal gruppo dirigente fu decisa da chi aveva vissuto come umiliazione l’autonomia e la “presunzione” dei comunisti di quella fabbrica. Uno stato d’animo già emerso quando i dirigenti di Aeritalia furono accusati dalla Federazione comunista napoletana di slealtà: secondo la Federazione, benché nulla lo dimostrasse, il gruppo dirigente di fabbrica non si era speso abbastanza contro il taglio dei punti di contingenza deciso dal governo Craxi.
- Nel 1975, la partecipazione di Aeritalia al programma Boeing 767 fu finanziata con una fideiussione di 380 miliardi e 150 miliardi di lire dalla Legge 184. Nel biennio 1975-77 tre leggi, cosidette promozionali finanziarono 1.000 miliardi di lire ciascuna il rinnovamento straordinario delle Forza Armate. La Legge Aeronautica (N.38 del 16 febbraio 1977) finanziò la partecipazione Aeritalia al programma Tornado e l”addestratore dell’addestratore MB339. Altri fondi pubblici arrivarono per lo sviluppo di Aeritalia e Macchi del cacciaborbandiere-ricognitore CBR-80 per sostituire i Fiat G.9 che poi divenne AMX che attivò una importante collaborazione con l’industria breasiliana. ( Return Indice )
IL DECOLLO
Il giornale di Fabbrica della Sezione PCI AERITALIA ( Link ai numeri disponibili e digitalizzati )
IL DECOLLO iniziò la pubblicazione nel 1983. All’epoca, nessun altro giornale comunista veniva realizzato all’interno di aziende campane. Era stampato in tipografia e prendeva il nome dal vecchio giornalino ciclostilato della cellula comunista di fabbrica dei primi anni ’70, dal quale ne aveva ereditato anche lo spirito.
Il progetto non ottenne il finanziamento della Federazione del partito, che lo giudicò troppo costoso e “pretenzioso”. I promotori, tuttavia, decisero di proseguire comunque, autofinanziandosi e ricorrendo alla pubblicità.
La scelta di cercare sostenitori privati non fu semplice, ma si rivelò decisiva e vincente: diverse attività di Pomigliano d’Arco aderirono alla campagna pubblicitaria, garantendo così alla redazione del giornale piena autonomia.
Tra i dirigenti del partito che apprezzarono l’iniziativa e contribuirono concretamente alla pubblicazione si ricordano Berardo Impegno e Attilio Wanderlingh. Berardo, all’epoca consigliere comunale a Napoli, convinse Mimmo Maresca a inserire nel giornale pubblicità della COOP.
Maresca era un dirigente della Lega delle Cooperative di Napoli che, nel 1986, si tolse la vita dopo aver ricevuto una comunicazione giudiziaria relativa allo scandalo delle “Cooperative degli ex detenuti” (per una ricostruzione dettagliata si rinvia alle note: Lo scandalo delle cooperative napoletane).
Attilio Wanderlingh, giornalista professionista di lunga esperienza, tornato a Napoli e all’Unità, convinse Antonio Polito, allora redattore della sede napoletana del giornale, a firmare i primi numeri del Decollo.
In seguito fu lo stesso Wanderlingh a proporre che la pubblicazione della sezione PCI dell’Aeritalia uscisse come supplemento di NDR, una rivista culturale di rilievo da lui diretta e pubblicata. Firmò poi tutti i numeri successivi del giornale di fabbrica.
Alla collaborazione con NDR seguì anche quella con il giornale catanese I Siciliani, che cessò tragicamente dopo l’assassinio del suo direttore, Pippo Fava, per mano della mafia.
Il giornale dei comunisti dell’Aeritalia veniva stampato in oltre un migliaio di copie. Dopo i primi mesi di rodaggio raggiunse una cadenza mensile e una distribuzione capillare in tutti gli stabilimenti campani del gruppo aeronautico.

Tutti gli articoli erano firmati, sia quelli della redazione sia quelli esterni; ogni numero ospitava regolarmente un intervento del gruppo dirigente centrale del partito. Questa disponibilità, tuttavia, non facilitava i rapporti tra la redazione del Decollo e la Federazione Provinciale del PCI, che non sempre condivideva la scelta del dirigente incaricato di scrivere l’articolo politico di apertura.
Nei tre anni successivi, gli introiti delle vendite e l’apporto della pubblicità privata coprirono e spesso superarono tutti i costi del giornale. Quando il gruppo dirigente di fabbrica uscì di scena e la pubblicazione si chiuse, una parte dei fondi del Decollo fu destinata a dei piccoli gadget realizzati da Ferrigno, artigiano dei pastori di San Gregorio Armeno. Una statuina di Pulcinella intento a leggere il Decollo fu spedita o consegnata a tutti coloro che avevano collaborato alla redazione.
Anche l’uscita del numero zero, il primo numero di lancio, suscitò non poche perplessità: il giornale si apriva con un intervento dell’ingegner Amedeo Caporaletti, direttore del Gruppo Velivoli Trasporto, manager notoriamente distante dalle posizioni del PCI. Un’apertura che fece discutere, ma confermava la volontà del Decollo di raccontare la fabbrica senza rinchiudersi in schemi predefiniti.

Nonostante le critiche e i rilievi, dalla Federazione napoletana non arrivarono mai ostracismi espliciti al Decollo. Il giornale soffrì piuttosto di una certa disattenzione degli organismi dirigenti locali, che forse diffidavano di una pubblicazione i cui contenuti non erano condivisi né controllati dalla Federazione stessa.
Il Decollo dedicava alla politica nazionale, regionale e locale quattro-cinque pagine; le restanti diciassette-otto erano riservate ai temi dell’azienda: il futuro del comparto aeronautico, le nuove tecnologie, la ricerca, l’innovazione, il ruolo dei quadri e dei tecnici. Ampio spazio era dedicato anche a rubriche culturali su libri, teatro e cinema.
Oggi queste scelte sembrano scontate, ma allora non era affatto semplice proporle in un giornalino di partito, e ancor meno per una pubblicazione comunista di una fabbrica metalmeccanica.
Qualche anno fa, l’Archivio storico della FIOM di Pomigliano d’Arco recuperò ed espose in una mostra le pubblicazioni delle grandi fabbriche dalla fine degli anni Sessanta. La maggior parte erano ciclostilati, poco più che volantini: vita media brevissima, contenuti orientati quasi esclusivamente alla propaganda operaia.
Negli anni Ottanta solo i giornali dei comunisti di Piaggio e dell’Aeritalia adottarono un modello di sostenibilità economica capace di garantire continuità alla pubblicazione. Il Decollo si affrancava anche dai contenuti di mera propaganda, che peraltro non favorivano le entrate pubblicitarie.
All’Italsider non si era andati molto oltre il “Bolscevico”, e all’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, alcuni anni prima del Decollo, la Federazione di Napoli aveva finanziato “Il Serpentone”, uscito per una mezza dozzina di numeri.
Il giornale dell’Aeritalia aveva una sezione culturale curata da Nicola Marotta, Guido Di Paolo e Michele Fornaro, lavoratori dell’azienda e artisti riconosciuti nei campi della grafica, del teatro, della musica e dello spettacolo. La copertina di ogni numero riproduceva una fotografia di Henri Cartier-Bresson: durante una mostra napoletana delle opere del fotografo, l’agenzia titolare dei diritti concesse al Decollo la pubblicazione gratuita di dodici immagini che ritraevano ambienti di lavoro operaio.
Tra i collaboratori del giornale si ricordano Biagio De Giovanni, Giuliano Cazzola, allora dirigente della CGIL, e lo scrittore Luigi Compagnone, che dettava i suoi articoli per telefono. Rilasciarono interviste esclusive anche Pino Daniele, Roberto De Simone e il regista Ettore Scola.
Una libreria del Centro Storico di Napoli distribuiva copie del giornale, applicando sconti speciali ai lettori, contribuendo così alla diffusione capillare del Decollo tra gli operai e i tecnici della città.
( Return Indice )
Il giornale di fabbrica e la Direzione Nazionale del PCI.
Ogni mese una copia del Decollo veniva spedita alla Direzione del PCI e, dopo una decina di numeri, la redazione fu invitata a Roma. A Botteghe Oscure incontrarono un giovanissimo Walter Veltroni che, nominato da poche settimane responsabile per la comunicazione, voleva conoscere meglio il giornale di fabbrica.
Il Partito intendeva valorizzare su scala nazionale le pubblicazioni minori: quelle di sezioni territoriali, di fabbrica e di piccole località. Per favorirne la nascita e la diffusione, Veltroni aveva ottenuto un investimento per allestire una piccola tipografia con impianti completamente nuovi, destinati alle pubblicazioni locali di tutto il territorio nazionale.
Nei mesi successivi, per i redattori del Decollo seguì l’invito di Fabio Mussi a presentare il giornale in un convegno nazionale organizzato a Pisa sul tema della comunicazione di fabbrica. Era gennaio 1985. Da Napoli partirono un rappresentante di Aeritalia, uno della Selenia, Monica Tavernini dell’Alfa Sud e Pasquale Mangiapia dell’Italsider. Il convegno, l’accoglienza e la città toscana furono un’esperienza indimenticabile: la trasferta si prolungò di altri tre giorni perché Pisa si svegliò coperta da neve, i treni furono bloccati e fu impossibile tornare a casa.
Negli anni successivi il Decollo continuò a essere stampato da una piccola tipografia di Brusciano. Con quell’esperienza, i comunisti avevano inaugurato un canale efficace di raccordo con la comunità di fabbrica. La direzione aziendale, per volontà di Caporaletti, dal 1986 pubblicò per alcuni anni un proprio giornalino di quattro facciate per tutti i dipendenti, con un investimento di 200 milioni di lire. Anche il CRAL cercò di fare altrettanto con Albatros, un fascicolo che richiamava il formato e la grafica del Decollo.
Il logo del giornale dei comunisti dell’Aeritalia, Aerouccello, creato dal grafico Michele Fornaro, è oggi molto noto nelle imprese e tra gli appassionati e operatori aeronautici. È stato registrato da Aeropolis e viene riprodotto in tutte le pubblicazioni dell’associazione napoletana dell’aerospazio, che lo scorso anno ha superato il milione di lettori.
( Return Indice )
LA RICERCA SOCIOLOGICA
Lo studio sulle aspirazioni e gli orientamenti dei dipendenti AERITALIA
Il progetto fu sviluppato nel 1985 e rappresentò una delle iniziative più significative della Sezione PCI della fabbrica. ( Vedi i dati pubblicati su Il Decollo giugno 1985 )
Erano passati cinque anni dalla sconfitta sindacale della Fiat. Nel pieno della vertenza, febbraio 1980, a Torino alla Conferenza nazionali dei comunisti furono presentati i risultati di una ricerca che avrebbero dovuto individuare e rappresentare le condizioni di lavoro e le opinioni dei lavoratori Fiat.

La ricerca era stata promossa con l’obiettivo di dimostrare la validità delle tesi che il PCI e il sindacato torinese avevano sostenuto durante la vertenza Fiat. Dopo pochi mesi, però, la marcia dei Quarantamila smentì clamorosamente i risultati del sondaggio torinese.
L’epilogo della vicenda Fiat e la sconfitta politica che ne conseguì per il Partito e il sindacato ebbero un peso enorme nella trasformazione delle relazioni industriali.
L’anno successivo, il PCI decise di ripetere sia la Conferenza dei comunisti Fiat sia la ricerca sociologica, riconoscendo l’errore dell’analisi precedente: i dati erano stati raccolti con approssimazione e limitati a un campione di soli operai.
Qualche anno più tardi, i comunisti dell’Aeritalia di Napoli, spinti da una fiducia e forse da una certa presunzione nelle loro capacità, decisero di replicare l’esperienza all’interno della loro fabbrica. L’obiettivo era costruire una ricerca di massa che servisse all’intero sindacato e al partito per comprendere come la modernizzazione stesse trasformando radicalmente la rappresentanza, il modo di vivere e di rapportarsi al lavoro nella fabbrica moderna.
All’interno della Direzione Risorse Umane, l’organizzazione del lavoro era stata affidata a un nuovo ufficio dove erano arrivati giovani sociologi, alcuni di formazione o simpatia comunista. Tutti furono coinvolti nel progetto, con l’intento di conferire alla ricerca non solo valenza politica ma anche rigore scientifico.
Fu così coinvolto il direttore scientifico dell’IRES-CGIL, Enrico Pugliese, docente della Facoltà di Sociologia dell’Università di Salerno, insieme ad Amato Lamberti della Facoltà di Sociologia di Napoli. Dopo diverse riunioni furono definite la roadmap e la timeline: l’iniziativa sarebbe stata della sezione di fabbrica del PCI, mentre i professori universitari avrebbero elaborato i questionari e analizzato i dati, prodotti con un software statistico che, all’epoca, solo Aeritalia possedeva in Italia.
La distribuzione e la raccolta dei questionari nei reparti furono affidate ai militanti della sezione, che dovevano individuare i lavoratori corrispondenti alle caratteristiche richieste per il campione.
L’iniziativa era ambiziosa e rischiosa: coinvolgeva troppe persone e l’azienda difficilmente avrebbe accettato che un gran numero di dipendenti fosse impegnato in questa attività. Per questo la direzione aziendale e la Federazione comunista napoletana furono informate ufficialmente solo quando il progetto era pronto e le locandine affisse in tutte le bacheche sindacali dell’Aeritalia.
Il progetto durò un intero mese, maggio 1985, e coinvolse circa un quarto dei dipendenti, un migliaio tra operai, impiegati e dirigenti, selezionati per età, esperienza, funzione e titolo di studio.
I risultati, i commenti e le valutazioni, ancora oggi disponibili, furono analizzati da Lamberti e Pugliese. Durante la presentazione fu sottolineato che, per obiettivi, campione e modalità di conduzione, quella ricerca aveva affidabilità e valenza scientifica ed era, senza dubbio, la prima esperienza del genere in Italia.
Il gruppo dirigente della sezione di fabbrica decise di coinvolgere anche la Direzione nazionale del PCI, per dare maggiore visibilità alla ricerca. Fu ottenuto un incontro con il sociologo Aris Accornero, presidente del CESPE (Centro Studi di Politica Economica del PCI), al quale fu chiesto di valutare i risultati e partecipare alla presentazione ufficiale. Quando ad Accornero furono presentati grafici e tabelle prodotte dal software SAS@, la sua risposta fu che non era abituato a lavorare con “disegni di barre e torte colorate prodotti da un elaboratore elettronico”.
Non esistevano ancora l’informatica di massa e i personal computer.
I risultati dello studio in Aeritalia furono poi ripresi da riviste specializzate e discussi in diverse università del Paese. Sociologi e specialisti riconobbero che da quella ricerca emergevano aspetti nuovi e di grande interesse sull’orientamento delle nuove generazioni di lavoratori delle fabbriche metalmeccaniche.
Si intravedeva una pagina nuova della storia non solo del Mezzogiorno: la ricerca metteva in luce orientamenti del movimento operaio che facevano emergere la dimensione concreta del lavoro, lasciando sullo sfondo lo scontro ideologico. L’organizzazione taylorista, infatti, cedeva il passo a un modello in cui anche il lavoratore ritrovava spazio per identificarsi e partecipare.
A Napoli, alla manifestazione pubblica promossa dal PCI Aeritalia per presentare gli elaborati, parteciparono lavoratori dell’azienda, studenti e specialisti universitari. Una rappresentanza ai massimi livelli dell’azienda, guidata dall’ing. Caporaletti, fu presente insieme a diversi sindacalisti, tra cui Giancarlo Canzanella, direttore dell’IRES, e Gianfranco Federico, sociologo e segretario provinciale della Fiom.
Nessuno dei dirigenti cittadini o provinciali del PCI, invece, ritenne di partecipare a quell’evento, che si svolse nella sala dei convegni del Jolly Hotel di Piazza Municipio, a pochi metri dalla Federazione del PCI di Via dei Fiorentini.
( Return Indice )
EPILOGO
Ai comunisti dell’Aeritalia si pose il quesito se trasferire nell’azione politica gli orientamenti emersi a sorpresa dalla ricerca, oppure continuare con la linea suggerita dalla tradizione della cultura comunista.
Il partito napoletano era fortemente influenzato da una formazione operaista: decidere di guardare avanti significava per il gruppo dirigente dell’azienda di Pomigliano D’Arco esporsi all’isolamento dal vertice territoriale. L’epilogo non poteva che essere quello che poi ci fu: l’abbandono dell’impegno politico da parte del gruppo dirigente, concentrato sul lavoro e sulla professione, lasciando in un angolo della memoria un’esperienza che pure aveva segnato tutti loro.
Il nuovo gruppo dirigente della fabbrica che subentrò era rappresentativo del territorio di Pomigliano e dei paesi circostanti e si allineò rapidamente alle posizioni politiche della Federazione di Via dei Fiorentini.
Di quella vicenda, di quando i lavoratori comunisti avevano avuto la pretesa di “governare” la fabbrica, si riparlò nei primi anni ’90, quando l’azienda annunciò un pesante ridimensionamento degli impianti napoletani. A Pomigliano D’Arco scoppiò un’aspra vertenza sindacale: lo scontro degenerò in blocchi stradali e occupazioni dello stabilimento. Allora, chi era stato protagonista di quella stagione dei comunisti della fabbrica, almeno quelli che avevano ruoli di rilievo nel management del gruppo aeronautico, fu oggetto di feroci e gravi attacchi personali.
La natura dello scontro sindacale, che conteneva tutta l’amarezza e la delusione personale e ideale di molti militanti comunisti e dirigenti della CGIL di fabbrica, portò ad additare come nemici e traditori coloro che avevano condiviso gli stessi ideali politici, ma che non avevano partecipato alla scelta di uno scontro frontale con l’azienda.
La durezza dello scontro disorientò la classe politica, l’opinione pubblica e il management; impedì la chiusura dello stabilimento Alenia di Pomigliano D’Arco e produsse episodi discutibili, eccessi e momenti inquietanti che lacerarono profondamente gli equilibri e il corpo vivo della fabbrica.
Le conseguenze furono devastanti per la componente sindacale Fiom e per quello che restava del gruppo dirigente della sezione PCI di fabbrica. Per i militanti della sinistra di fabbrica si aprì la stagione delle lacerazioni politiche, degli scontri e dei rancori personali, che rapidamente avrebbero consumato e reso irrilevante la loro rappresentatività tra i lavoratori.
Chi tra i dirigenti politici e sindacali aveva capito in tempo quanto tutto stesse crollando – non solo con il Muro di Berlino – intraprese un percorso professionale all’interno dell’azienda. Alcuni assunsero ruoli manageriali sempre più significativi; altri trovarono rifugio nell’azienda e furono valorizzati dal management per la loro esperienza, tecnica e professionale. Questi sono, o almeno alcuni di essi, coloro che negli anni successivi hanno fatto i conti con i rimpianti e con quel malessere che li ha accompagnati fino alla pensione.
Ci fu però anche chi decise di chiudere quella storia personale senza traumi o problemi, aprendo una nuova pagina della propria vita professionale, senza compromettere l’immagine costruita negli anni precedenti di militanza politica disinteressata e trasparente. Questi furono coloro che nei decenni successivi realizzarono progetti sociali e professionali di grande interesse, facendo tesoro del patrimonio umano e politico maturato in quella straordinaria esperienza che, dagli anni Settanta ai primi anni Novanta, aveva lasciato un segno indelebile.
La storia dell’Aeritalia è una storia minore, piccola, e tuttavia gigantesca di fronte alle vicende della politica nazionale e alla miseria dei personaggi d’operetta che sopravvivono ancora oggi, a testimonianza di una stagione in cui milioni di persone, non solo lavoratori dell’industria, cercarono riscatto personale e sociale.
Antonio Ferrara
Napoli 25 gennaio 2021
1. L’autore del testo non è uno storico, è un giornalista, analista di mercato aeronautico e presidente dell’associazione Aeropolis – E’ stato Segretario della Sezione PCI AERITALIA (1982-86) e nella seconda metà degli anni 2000, segretario di circolo, dirigente nazionale e regionale per i Democratici di Sinistra. Nel testo, per scelta di chi scrive, i riferimenti a persone sono solo personaggi pubblici. ( Return )
2. Le tesi riportate in questa nota sono la ricostruzione è l’interpretazione dei fatti del tutto personale dell’autore. E’ benvenuto qualsiasi contributo di conoscenza e di analisi di chi è informato sui fatti narrati. ( Return )
3. Commissioni tra direzione aziendale e delegati sindacati dove si decidevano passaggi di livelli, trasferimenti e mobilità, prevalentemente degli operai ( Return )
( Return Indice )
____________________________________
Parte 2
Napoli e il Partito Comunista negli anni 80
La ricostruzione di alcune grandi piccole storie di protagonisti di un’epoca.
Una persona per bene, che pose fine alla propria vita per coerenza e adesione a un’idea politica.
Quella di Domenico Maresca potrebbe sembrare una storia di epoche lontane, e invece accadde la mattina del 26 settembre 1986: Mimmo, stimato dirigente della Lega delle Cooperative, si uccise gettandosi nel vuoto dal ponte della stazione della Circumvesuviana di Seiano.
Aveva trentatré anni, una bambina, ed era un giovane militante comunista, un quadro politico su cui avevano investito il partito e la Lega delle Cooperative. Era ritenuto vicino a Berardo Impegno, consigliere comunale e leader emergente nel PCI napoletano.
La tragedia attirò immediatamente l’attenzione dell’opinione pubblica sull’inchiesta della magistratura napoletana sulle “Cooperative degli ex detenuti”.
Non è possibile stabilire con certezza cosa lo spinse al suicidio. Maresca, funzionario della Lega delle Cooperative, aveva ricevuto una comunicazione giudiziaria per truffa e associazione per delinquere di stampo camorristico. Dalle indagini emerse un sistema di corruzione e collusione tra politica e malaffare, in cui figuravano anche esponenti del PCI napoletano.
Erano passati dieci anni da quando Enrico Berlinguer, alla Festa nazionale dell’Unità di Napoli nel settembre 1976, aveva concluso con parole di slancio verso la città e il suo popolo. I successi elettorali e la gestione della ricostruzione post-terremoto portarono invece il PCI napoletano a includere nelle cooperative figure poco affidabili, e la classe dirigente finì per assumere caratteristiche simili a quelle delle altre forze di governo.
La vicenda delle cooperative va contestualizzata nei primi anni ’80, quando esse rappresentavano una novità economica e politica per il Mezzogiorno. All’inizio degli anni ’80, quel modello, inizialmente positivo, sfociò invece in un sistema di malaffare che trovò conferma negli anni successivi, con tangentopoli e altre inchieste sulla ricostruzione post-terremoto. Una deriva che sbiadì la diversità comunista di memoria berlingueriana.
I magistrati riscontrarono gravi responsabilità penali di numerosi dirigenti di cooperative e politici napoletani. Per dimensioni e portata, si trattò della prima grande inchiesta di questo tipo in Campania, antecedente tangentopoli.
È difficile immaginare che il gesto estremo di Maresca non sia stato legato al suo coinvolgimento nell’inchiesta. Pur non emergendo responsabilità dirette a giustificare il suicidio, Maresca era un ragazzo per bene, provato dalla situazione, e aveva chiesto ai magistrati di essere convocato per chiarire la propria posizione. La lunga attesa, inutile e frustrante, aggravò il malessere che lo spinse a porre fine alla propria vita.
L’avvocato Antonio Briganti, suo legale, dichiarò: «Non si occupava di contabilità, non maneggiava denaro e aveva chiesto un interrogatorio per chiarire la sua estraneità. Non riusciva a sopportare il peso dei sospetti e la lentezza dell’inchiesta».
Maresca fu vittima di un meccanismo di cui era una pedina insignificante. Questa verità fu confermata anche dalla Commissione parlamentare sulla criminalità organizzata in Campania, che nel 2000 scrisse:
“Quelle cooperative – riporta il documento – furono coinvolte negli anni ’80 in uno scandalo di notevoli dimensioni. Quasi tutti i vertici furono ristretti in carcere per truffa ai danni dello Stato. Nello scorrere l’elenco dei soci ex detenuti emergono nomi del ghota della camorra locale. Inquietanti restano i retroscena e gli autori dell’assassinio dei sigg. Cautiero e De Magistris, delegati dei soci cooperatori.”
Le cooperative erano rigidamente suddivise tra partiti, con un’organizzazione capillare infiltrata dalla camorra. Maresca, persona perbene, si trovò per coerenza e militanza politica dentro un ingranaggio inesorabile che lo condusse a porre fine alla sua vita.
Il documento fa riferimento a due omicidi ancora irrisolti: quello di Vincenzo Cautero, delegato di una cooperativa di ex detenuti e cugino della moglie di Guglielmo Giuliano, assassinato il 24 gennaio 1986, e quello di Giacarlo Siani, ucciso quattro mesi dopo dalla camorra. Le vicende di Cautero e Siani si intrecciarono nel drammatico quadro delle indagini sulla criminalità organizzata a Napoli.
. ( Return Indice )
LE COOPERATIVE DEGLI EX DETENUTI
La vicenda delle cooperative degli ex detenuti ebbe inizio nel 1981, quando i partiti napoletani e l’amministrazione di Maurizio Valenzi concordarono con il Governo una misura destinata a contenere il crescente disagio sociale nei quartieri più poveri della città.
Quel provvedimento voleva essere, in qualche modo, una risposta innovativa a un problema che in Italia non ha mai trovato una soluzione definitiva, nemmeno dopo decenni. L’obiettivo era favorire il reinserimento nella legalità di ampie fasce di napoletani che avevano scontato in carcere i propri errori.
Si trattava di una scelta politica coraggiosa, e anche molto rischiosa, da leggere nel contesto storico e sociale di allora, in cui Napoli e l’intera Campania attraversavano una fase drammatica e complessa.
( Return Indice )
La città, il dramma del terremoto e la strategia eversiva.
Nel 1980 l’Irpinia e la città furono colpite da un terremoto devastante; il dramma era tale che per la prima volta i napoletani trascurarono persino la “guerra” dei botti a San Silvestro. Non era successo nemmeno durante la guerra.
Nei mesi successivi, sotto la gestione straordinaria di Giuseppe Zamberletti, migliaia di persone vivevano in alberghi messi a disposizione dal Comune e dal Commissariato Straordinario. La tensione e il disagio alimentavano fenomeni di illegalità diffusa. La confusione, l’inefficienza e gli sperperi degli aiuti accrescevano il malessere nei quartieri popolari, dal Centro storico alle aree operaie.
In questa situazione, appena pochi mesi prima impensabile, si aprivano spazi d’azione per il terrorismo, nel pieno della loro strategia eversiva. Le Brigate Rosse aggregarono rapidamente le sigle locali legate al progetto rivoluzionario armato e misero a punto una strategia volta a conquistare consenso tra i ceti popolari più poveri della città.
Era giugno 1981 quando le BR rapirono e gambizzarono l’assessore comunista all’Urbanistica e preside di Architettura, Uberto Siola, figura chiave della ricostruzione post-terremoto. I brigatisti minacciarono di intensificare le azioni militari mentre Stato e istituzioni locali navigavano nel caos. Nei loro proclami, le BR chiesero e ottennero enormi aiuti alimentari, non solo per i terremotati, ma estesi a tutti i poveri della città.
I mercatini rionali si riempirono di coperte, forme intere di parmigiano e altri generi distribuiti dal Comune, spesso finiti nelle mani dei “furbi” della città, che li rivendevano a commercianti ambulanti disonesti.
Pochi mesi prima, ad aprile, gli stessi terroristi avevano sequestrato a Torre del Greco l’assessore regionale all’Urbanistica, Ciro Cirillo. Poco amato dai cittadini, Cirillo era considerato portatore degli interessi della speculazione edilizia e del clan dei Gava. La lunga trattativa tra Stato, DC, BR, Servizi Segreti e Camorra si concluse il 24 luglio con la liberazione dell’assessore. Cirillo incassò un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire, “raccolti da amici”, come dichiarò lui stesso. In realtà, una parte dei soldi servì a finanziare la ricostruzione delle zone terremotate.
Secondo la documentazione dell’indagine del giudice Carlo Alemi, circa un miliardo e mezzo di lire furono promessi a Cutolo per la mediazione. Non è chiaro se i soldi gli furono consegnati, ma certo è che la Camorra si affermò come protagonista sulla scena della politica nazionale.
Le BR ottennero fondi dai rapimenti per finanziare l’organizzazione e le successive azioni. Lo Stato, le istituzioni e la classe politica nazionale e locale persero autorevolezza e legittimazione.
Da allora Napoli e la Campania dovettero fare i conti con una criminalità organizzata che saliva di livello, accedendo sempre più frequentemente ad appalti e risorse per la ricostruzione post-terremoto.
( Return Indice )
I MOVIMENTI DI LOTTA PER IL LAVORO
Nel 1981, con l’aumento del disagio sociale, nuovi soggetti si affermavano sulla scena cittadina: organizzazioni rivoluzionarie e movimenti di lotta per il lavoro e la casa.
Nei quartieri del Centro Storico, le organizzazioni di disoccupati apparvero per la prima volta nel 1974 e contavano ormai migliaia di iscritti. Le sedi dei movimenti politici antagonisti si diffusero rapidamente in città: dal Vomero a Fuorigrotta, da Bagnoli a Forcella, dal Casale di Posillipo ai quartieri periferici di tradizione operaia.
La città era prostrata. L’economia a pezzi, gli iscritti al collocamento superavano i centomila, il carovita cresceva e centinaia di migliaia di senzatetto affollavano l’area metropolitana. Nei primi otto mesi dell’anno, Napoli contò 148 morti ammazzati. I disoccupati, esasperati, assaltarono la Camera del Lavoro: furono loro, non i fascisti di ieri o di oggi, a devastare gli uffici del sindacato.
L’ordine pubblico era sconvolto. In città esplodevano continuamente scontri e incidenti gravi tra forze dell’ordine e chi, privo di casa, chiedeva assistenza, tra chi difendeva un lavoro e chi lo cercava con la forza della disperazione.
Lo scenario appariva sempre più ingovernabile. Gli intrecci tra terrorismo e malavita organizzata dilatavano spazi di potere illegittimi. I partiti napoletani erano allo sbando, intimoriti e con le spalle al muro. I Consigli di Quartiere, privi di poteri reali, erano spinti in prima linea dall’amministrazione comunale per contenere le pressioni popolari sul Palazzo San Giacomo e dare risposte alle richieste di assistenza primaria.
I più furbi tra i dirigenti politici, anche della sinistra, si attrezzavano per partecipare all’arrembaggio ai fondi per la ricostruzione. In quella situazione, la tenuta dello Stato appariva fortemente esposta. La disperazione della città avrebbe potuto facilmente trovare sbocco politico in alleanze tra vaste fasce della popolazione, la Camorra e le organizzazioni terroristiche.
Sembrava uno scenario apocalittico e senza via d’uscita. Eppure, ancora una volta, Napoli riuscì a venirne fuori. Il prezzo però fu alto, forse troppo: quella perdita di moralità e dignità, consumata in quegli anni, non è mai più stata recuperata.
( Return Indice )
IL PIANO PER IL LAVORO E LE COOPERATIVE DEGLI EX DETENUTI
La classe dirigente locale e nazionale era ben consapevole dei rischi che correvano l’ordine pubblico e lo Stato democratico. Per questo si cercavano soluzioni in grado di contenere quella deriva. Ma, com’è sempre successo nella storia, la paura non è mai una buona consigliera.
Nel 1981, l’amministrazione comunale e i partiti napoletani decisero di mettere in campo un piano di attività pubbliche affidate a cooperative di giovani, costituite da disoccupati delle liste di lotta e da ex detenuti dei quartieri popolari. L’obiettivo era riportare entro confini legali larghe fasce di cittadini trascinati dalla crisi verso un confine pericolosamente vicino alla criminalità.
La soluzione non era del tutto nuova: riprendeva uno schema inaugurato nel 1974, quando i primi cantieristi vennero stabilizzati. Negli anni successivi, ventiseimila disoccupati napoletani trovarono un lavoro seguendo percorsi e graduatorie autonome rispetto alle procedure ordinarie del collocamento.
La decisione di inserire ex detenuti in quelle liste fu condivisa da tutte le istituzioni: la Prefettura, allora guidata da Riccardo Boccia – poi nominato Alto commissario contro la mafia – diede il suo assenso. Tuttavia, come rilevò la magistratura, quella scelta permise alla criminalità organizzata di accedere direttamente alla gestione di risorse pubbliche, trasformandola in un soggetto politico di cui le istituzioni, negli anni successivi, avrebbero fatto sempre più fatica a prescindere.
Un errore imperdonabile, che inaugurò una lunga stagione di cedimenti, complicità e compromissione della classe politica – non solo napoletana – con il malaffare. ( Return Indice )
IL PROGETTO
Il Governo nazionale stanziò 240 miliardi di lire per il piano delle Cooperative degli Ex detenuti – negli anni, Comune e Provincia di Napoli erogarono complessivamente 280 miliardi – destinati a lavori socialmente utili da affidare a disoccupati organizzati e a ex detenuti. Le cooperative dovevano occuparsi del risanamento dei quartieri, interventi gestiti e controllati dalle tre grandi centrali regionali della cooperazione: Lega, Confederazione e Associazione, di fatto sotto il controllo di tutti i partiti.
Ognuna delle tre centrali costituì quattro cooperative da 130-150 soci. In ciascuna, circa cento erano ex detenuti, il resto militanti o persone indicate da politici e amministratori locali. In breve tempo le cooperative si riempirono di ulteriori iscritti, arrivando a contare 4.600 disoccupati.
Il presidente della Lega, richiamandosi alla sinistra napoletana, era Ricciotti Adinolfi, esponente di rilievo del PCI, che fin dall’inizio non condivise l’iniziativa. Fu sostituito dall’architetto Luciano Miraglia, un altro personaggio indicato dal PCI napoletano, finito tra gli arrestati durante l’inchiesta.
Nei mesi successivi, durante le indagini, anche molti dirigenti locali – pur tardivamente e in riunioni chiuse – espressero forti critiche all’iniziativa dell’amministrazione comunale.
Il progetto delle cooperative deragliò alcuni anni dopo, quando le indagini furono avviate – secondo la stampa dell’epoca – grazie ad elementi emersi durante l’inchiesta sull’assassinio del giornalista Giancarlo Siani. Da quell’indagine a tutto campo sulla Camorra napoletana emersero irregolarità negli appalti pubblici, tangenti ai partiti e la conferma che la famiglia Giuliano di Forcella controllava gran parte dei disoccupati delle cooperative di ex detenuti.
Il magistrato Guglielmo Palmeri, dell’ufficio istruzione del tribunale di Napoli, fu incaricato del dossier e negli anni successivi portò a sentenza i casi raccolti. Palmeri non era nuovo a inchieste complesse: aveva già affrontato il clan Gionta di Torre Annunziata, che dominava le attività economiche della costa vesuviana.
La verità completa su quella vicenda, forse, non è mai emersa del tutto. La storia, in fondo tutta napoletana, divenne presto secondaria rispetto agli eventi che, in rapida successione, sconvolgevano l’opinione pubblica e trasformavano radicalmente il quadro politico e sociale del Paese. ( Return Indice )
LE VICENDE AL CENTRO DELLO SCANDALO
L’Unità affidò l’inchiesta sulle cooperative prima a Luigi Vicinanza, poi anche a Rocco Di Blasi. In uno degli articoli pubblicati si leggeva: «Nel primo periodo della storia delle cooperative, dall’81 all’83, secondo gli inquirenti, le coop avrebbero falsificato fatture relative a contratti con gli enti locali (Comune e Provincia) per lavori socialmente utili». «Dalla fine dell’83 al marzo ’84 tutto sarebbe filato liscio, perché le cooperative erano in cassa integrazione». «Dal ’84 fino al 1986, invece, i contratti con gli enti locali si sarebbero trasformati in convenzioni; in questo periodo la truffa crebbe di entità, perché le cooperative trattenevano illegalmente il 51% dei fondi».
Il meccanismo della truffa, dettagliò il magistrato istruttore, era semplice ma devastante. «È stato sperperato un numero enorme di denaro», dichiarò Palmeri. «Svariati miliardi con un uso perverso del meccanismo del 51%. Nelle convenzioni stipulate da Comune e Provincia di Napoli con le tre centrali della cooperazione era previsto il versamento dello stipendio per ogni singolo socio, un contributo del 5% per le spese generali e un’ulteriore quota del 51% per la copertura Inps e Inail».
«Nel Mezzogiorno — aggiunse il giudice — per chi opera in questo settore la legge prevede agevolazioni: invece del 51% basta pagare il 28%. Nei bilanci avrebbe dovuto esserci la giustificazione della differenza di denaro incassata e non versata. Di questo invece non c’è traccia: dove sono finiti i soldi?». Tantissimi soldi. «In parte se li sono messi in tasca i capi delle centrali napoletane; sul resto vedremo dove arriveranno le indagini».
Durante l’udienza del 6 aprile 1988 a Napoli, Palmeri dettagliò molti aspetti dell’inchiesta. Radio Radicale registrò cinque ore di dibattimento. Emerse che i posti nelle liste delle cooperative erano stati venduti: mediatori e camorristi chiedevano dai 6 agli 8 milioni a testa, promettendo un impiego sicuro nell’amministrazione pubblica.( Return Indice )
PERSONAGGI COINVOLTI NEI PROVVEDIMENTI DELLA MAGISTRATURA
Tra maggio e ottobre del 1986 il magistrato emise numerosi provvedimenti e ventotto mandati di cattura, indirizzati a personaggi noti e rappresentanti di tutti i partiti napoletani e delle cooperative.
Tra i nomi maggiormente coinvolti c’erano il sindaco di Procida Vincenzo Esposito, socialista vicino all’assessore Giulio Di Donato, Gabriele Airola, Luciano Miraglia, Bruno Fanelli, Antonio Fusco e Raffaele Beato, vicesindaco socialista di Portici.
Le porte di Poggioreale si aprirono per il consigliere comunale Aldo De Rosa e Marco Nicola Mazzella Di Bosco, presidente di una coop di ex detenuti. In galera finirono anche Lucio Gallo, Luigi Reale, Antonio Chiarella, ex assessore del Psdi, Francesco Capacchione e Cosimo Barbato, già assessore democristiano al Comune di Napoli, tutti legati alle coop bianche.
Una comunicazione giudiziaria per ricettazione e associazione per delinquere di stampo mafioso raggiunse il sub-commissario della federazione socialista di Napoli, Freddy Scalfati. Dopo un sopralluogo nella sede del Psi in via Marchese Campodisola, il magistrato ordinò anche l’arresto del segretario amministrativo Nicola Canciello e del sindacalista della Uil Vincenzo Siciliano.
Fermato per reticenza fu anche il consigliere provinciale comunista di Avellino, Gerardo Moscariello.
Nel corso dell’inchiesta, a conferma delle sue tesi, il magistrato inviò un mandato di cattura anche a Salvatore Giuliano, il «padrino» di Forcella presente nelle cooperative di ex detenuti.
Quattro comunicazioni giudiziarie furono inviate ai vertici nazionali della Lega delle cooperative: il presidente Onello Prandini, il vicepresidente Umberto Dragone, Luigi Rosafio e Mauro Nocchi, ritenendo che fossero informati di quanto accadeva a Napoli. La struttura nazionale prese immediatamente le distanze dal gruppo dirigente napoletano.
Nei mesi successivi l’indagine sulla maxitruffa incrociò i delitti del giornalista anticamorra Giancarlo Siani e del pregiudicato Vincenzo Cautero, delegato di una delle cooperative sotto inchiesta. Il magistrato inviò altre 17 comunicazioni giudiziarie.
Furono coinvolti anche due ispettori del commissariato di Montecalvario e numerosi esponenti politici: il sottosegretario Alberto Ciampaglia, l’assessore e consigliere regionale del Psdi Gennaro D’Ambrosio e Giovanni Grieco, gli ex consiglieri comunali Edmondo Mundo e Salvatore De Rosa, l’ex consigliere comunale della Dc Luciano Donelli. Comunicazioni furono inviate anche ad alcuni boss della camorra, tra cui Salvatore Lo Russo del clan dei Capitoni di Secondigliano e Marco Mariano, fratello del boss dei Quartieri.
La vicenda delle cooperative tornò all’attenzione dell’opinione pubblica nel 2015, quando un’inchiesta del pool guidato dal procuratore aggiunto Filippo Beatrice e dal Pm Henry John Woodcock rivelò legami tra il clan Contini, la pubblica amministrazione e le cooperative di ex detenuti.
Secondo gli accertamenti della Guardia di Finanza, le cooperative intascavano soldi e finanziamenti per lavori mai realizzati. Alcuni soci ricevevano lo stipendio pur non lavorando. Ventiquattro persone furono indagate per associazione per delinquere e truffa aggravata, tra cui un avvocato e alcuni funzionari provinciali. La sentenza riconobbe colpevoli di reati minori solo alcuni degli accusati.
IL PARTITO COMUNISTI E LE SUE RESPONSABILITA’
La vicenda delle cooperative degli ex detenuti coinvolse un pezzo importante della classe dirigente napoletana e tutti i partiti della città.
Alcuni mesi dopo, quando lo scandalo era ormai di dominio pubblico, si aprì una riflessione critica sui rapporti tra la Lega e i partiti della sinistra. Il gruppo dirigente napoletano del PCI fu pesantemente contestato dai vertici del partito, ma non ci furono conseguenze per i dirigenti della Federazione napoletana o campana. Nessuna responsabilità politica locale emerse con chiarezza.
Il Psi, da anni abituato alla gestione pratica del potere, vide la vicenda scorrere senza che le figure di primo piano del partito, né coloro che avevano ricoperto ruoli di vertice nell’amministrazione Valenzi, ne venissero sfiorati.
I vertici nazionali delle organizzazioni della cooperazione invece pretesero interventi radicali: molti dirigenti locali furono rimossi e le strutture della Lega commissariate.
LA DISCUSSIONE NEL PCI
Per il PCI e molti dei suoi militanti, la vicenda degli ex detenuti fu amara: era la prima volta che il partito e la sua amministrazione finivano coinvolti in un’inchiesta di tale portata.
I comunisti iniziavano solo allora la marcia verso l’omologazione, e quell’inciampo lo pagarono caro. Lo scandalo e il suicidio di Mimmo Maresca scossero profondamente la base del partito.
A fine ottobre, in un drammatico comitato federale, il segretario provinciale Umberto Ranieri, nella sua relazione, non minimizzò la gravità degli eventi. Rivendicò l’estraneità del partito al malaffare, ma aggiunse: «Non ci siamo resi conto tempestivamente di quanto stava avvenendo». «È stato un errore politico serio, forse il più grave di tutti».
Alla riunione partecipò anche Maurizio Valenzi, sindaco nel 1981 della giunta che aveva concepito la misura per gli ex detenuti. Intervenne con un discorso chiaro e senza sfumature difensive, descrivendo la drammaticità della situazione cittadina e rivendicando il ruolo dell’amministrazione nell’affrontare le emergenze: «Con la 285, seimila giovani sono stati assunti dal Comune». «Il problema vero di Napoli – come sarà ripetuto nei decenni successivi – è uscire dalla cultura dell’emergenza».
Valenzi comprese che l’intero gruppo dirigente voleva chiudere con quella storia e le lacerazioni sotterranee, salvando “la ditta”. Durante le dodici ore filate di dibattito e i trentacinque interventi, nessuno mise in evidenza responsabilità politiche di alcuno, meno che mai di Valenzi o dei suoi amministratori.
Dopo quella riunione, il partito comunista napoletano archiviò il dossier, destinandolo al cassetto delle storie dimenticate.
LA LEGGE 285 E LE COOPERATIVE DI SERVIZIO
Nel suo intervento alla riunione del gruppo dirigente, Valenzi ricordò il ruolo della sua amministrazione nella legge 285, il primo grande intervento nazionale per l’occupazione giovanile. Era marzo 1977: sulla scia del compromesso storico e delle manifestazioni di piazza, si varò un piano per favorire il lavoro ai giovani.
La misura fu finanziata per un triennio con 1.060 miliardi di lire, subì successive modificazioni e cessò di operare nel 1985. Il provvedimento prevedeva la creazione di nuove imprese e cooperative, cui non solo le istituzioni avrebbero dovuto affidare progetti.
Con il tempo, la legge si ridusse all’assunzione di 60 mila persone nella pubblica amministrazione. A Napoli, solo in alcuni grandi gruppi industriali i sindacati riuscirono a ottenere l’ingresso di giovani secondo le modalità previste dalla legge.
Per Napoli e la Campania, la legge 285 fu anche l’avvio di una stagione di nuovo clientelismo di massa, praticato con modalità diverse rispetto ai modelli consolidati di governo e controllo dei cittadini della Democrazia Cristiana e delle altre forze politiche.
Le liste dei disoccupati organizzati gestivano di fatto le assunzioni. I rapporti con le istituzioni e i partiti passavano per la “liturgia” della decisione politica degli organismi dirigenti, centrali e territoriali.
Negli ultimi tre anni del ’70, in Campania gli avviamenti al lavoro con la legge 285 furono oltre diecimila, per la gran parte nella pubblica amministrazione, dove nel corso degli anni successivi i giovani furono definitivamente assunti.
In quel contesto, il gruppo dirigente napoletano del PCI favorì l’ingresso nel mondo del lavoro dei propri quadri politici più promettenti. Diplomati e laureati, i giovani militanti più meritevoli furono inseriti in alcune cooperative come Biblion e Ecosub, per poi transitare verso il Comune o nelle strutture del ministero dei Beni Culturali.
Molti altri militanti delle sezioni territoriali restarono fuori: non era possibile dare risposta positiva a tutti. Questo generò tensioni e pressioni sui gruppi dirigenti regionali e provinciali, che cercarono di contenerle costruendo altre opportunità di inserimento per i propri militanti.
( Return Indice )
1984 – Il PCI e lo scandalo delle 96 assunzioni alla Provincia di Napoli
Nel 1986 la vicenda delle cooperative degli ex detenuti, l’intervento della magistratura e il ruolo acclarato della Camorra ebbe un’enorme risonanza pubblica.
Non fu così per un episodio apparentemente marginale, accaduto nell’ottobre del 1984, denunciato dalla stampa locale: una storia di lottizzazione che si infilava tra le pieghe dell’amministrazione provinciale.
Era emerso che tra i 96 nuovi assunti della Provincia di Napoli per gli organici del CPE — un servizio di sostegno alle attività didattiche dipendente dall’assessorato alla Pubblica Istruzione — figuravano figli, parenti e militanti dei consiglieri provinciali del PCI.
Quella lottizzazione, orchestrata da tutti i partiti presenti in Consiglio, finì per lacerare i militanti comunisti. Quando la vicenda fu resa pubblica, le prese di posizione delle sezioni furono durissime, e arrivarono numerosi telegrammi e lettere di protesta dai semplici iscritti.
Era una storia indifendibile: “assunzioni di famiglia” che costarono la scena a figure di rilievo del partito napoletano. Tra loro Federico Mauriello, il cui figlio Sabatino era stato assunto; Gennaro Limone, vicino ad Antonio Bassolino, che aveva fatto ottenere l’assunzione della moglie; Chiara Ercole, consigliere provinciale, per la sorella Elisa; e Giosuè Sulipano, capo del gruppo comunista in Consiglio.
Come ricostruì Giuseppe D’Avanzo, «al Comitato per la programmazione educativa furono assunte novantasei persone. Ai quarantacinque consiglieri — quattordici comunisti, quattordici democristiani, sette missini, cinque socialisti, tre socialdemocratici, un repubblicano, un liberale — fu chiesto di indicare due nomi a testa. Sei assunzioni furono messe a disposizione dei funzionari dell’ente».
Nel lungo elenco finirono ex sindaci, dirigenti di associazioni vicine ai partiti, parenti di funzionari, i figli dei consiglieri Dc Giovanni Tremante e Vincenzo Romano, la sorella del consigliere comunista Chiara Ercole, l’ex parroco di Sorrento Giuseppe Aiello e persino un neofascista detenuto per rapina e omicidio a Poggioreale.
Senza nulla togliere alla ricostruzione di D’Avanzo, la vicenda fu portata alla luce da Matteo Cosenza, giornalista comunista di «Paese Sera», che pochi giorni prima aveva realizzato un articolo con titolo aritmetico: «2×45 più 2×3». L’idea era semplice: 45 consiglieri, due posti ciascuno, più sei assegnati ai funzionari, per un totale di 96 assunzioni.
Pur militante del PCI, Cosenza fece prevalere la deontologia del giornalismo. Il martedì 23 ottobre 1984 pubblicò le informazioni di cui era venuto in possesso alcuni giorni prima, rendendo evidente una pratica politica che il partito non poteva più ignorare.
LA RIVINCITA SUL “MORALISMO” DEL PCI
Nel 1983 Valenzi lasciava Palazzo San Giacomo a Francesco Picardi, ricordato come “il Sindaco dei cento giorni”. Per la vita amministrativa della città iniziava la sua “stagione buia”.
La poltrona di sindaco, da Vincenzo Scotti fino agli anni di Tangentopoli, tornò ai democristiani e poi a mediocri esponenti del sottobosco politico napoletano.
La polemica sulle assunzioni lottizzate alla Provincia divampò rapidamente: il PCI napoletano, nel settembre dello stesso anno, aveva attaccato violentemente le diffuse pratiche clientelari della giunta comunale quadripartita (DC, PRI, PSDI, PLI), sostenuta all’esterno anche dal Psi.
Nei suoi 76 giorni da sindaco, Vincenzo Scotti aveva nominato 35 nuovi dirigenti, affidato a trattativa privata lavori per 300 miliardi senza copertura finanziaria e assunto 96 funzionari da destinare al Commissariato per la ricostruzione.
Il suo successore e collega di partito, Mario Forte, di fronte alle accuse dei comunisti, pur dichiarando legittimi gli atti del predecessore, annullò gli incarichi e spaccò il gruppo democristiano, dichiarando alla stampa che se Scotti e i suoi amici non avessero votato il bilancio della sua amministrazione, non escludeva “l’appoggio dei missini”.
Tutto rientrò: Scotti era anche vicesegretario del partito. I provvedimenti precedenti furono riconfermati e il bilancio approvato.
Rimase in sospeso il conto con i comunisti, che pochi giorni dopo si trovarono sulla stampa per la vicenda della Provincia, dove loro stessi erano coinvolti in pratiche clientelari-familiari, le stesse di cui avevano accusato gli altri partiti.
Il clima interno al PCI era pesante, senza però degenerare in scontro aperto. La questione catturò l’attenzione del segretario nazionale Alessandro Natta, che pretese e ottenne le dimissioni dei ritenuti responsabili.
La Federazione napoletana affrontò la questione delle assunzioni alla Provincia come poi avrebbe fatto con le cooperative degli ex detenuti. Fu Umberto Ranieri a relazionare al Comitato Federale: «È necessaria una discussione vera, senza giri di parole, che vada al fondo delle cose». «In ogni caso — aggiunse — quello che è successo deve servirci da lezione. Ci sono stati errori, superficialità e approssimazione compiuti dal gruppo dirigente e dal gruppo consiliare alla Provincia». «Importante è non lasciare zone d’ombra, rilanciare subito l’iniziativa politica del partito, uscire dall’angolo in cui vorrebbero confinarci».
Rileggere quelle affermazioni di Ranieri, considerando quello che poi emerse con le cooperative degli ex detenuti, permette di ricostruire la cappa di ipocrisia che in quegli anni aleggiava in via dei Fiorentini.
( Return Indice )
ANTONIO BASSOLINO E “LA TERRA NOSTRA”
Da mezzo secolo Antonio Bassolino rappresenta la figura di maggior rilievo della sinistra napoletana. Nelle scorse settimane non gli è riuscita l’impresa di ritornare alla guida della città e, forse a sostegno della sua candidatura, ha pubblicato un libro in cui ripercorre le vicende politiche recenti della città e quelle che lo hanno visto protagonista.
Il libro, a nostro avviso, è discutibile. Bassolino avrebbe potuto presentarsi in modo diverso, meno “politicistico”, rinunciando a quei ragionamenti che volano troppo in alto, come se ancora avesse incarichi istituzionali o rapporti politici da tutelare.
Anche quando racconta incontri con militanti e cittadini comuni, riduce tutto a un’autocelebrazione, talvolta inconsapevole.
Gli ultimi venti anni del PCI a Napoli, dalla stagione dei successi, passando per il terremoto e il terrorismo, furono anni terribili e straordinari per la città e per il partito. In quella storia, Bassolino fu una figura chiave. Durante lo scandalo delle cooperative degli ex detenuti napoletani, era segretario regionale campano e dirigente nazionale in ascesa del PCI, come egli stesso ricorda nel libro.
Un contributo della sua esperienza, oggi, fuori dai consueti schemi, potrebbe aiutare a costruire una narrazione più equilibrata e lucida di quella stagione e di molte altre vicende della storia recente della città.
CONCLUSIONI
A partire dai primi anni ’70, a Napoli aderì al PCI una generazione di giovani “incantati dalla politica”. Ragazzi entusiasti di partecipare concretamente al cambiamento sociale e politico, provenienti da tutti i quartieri e da tutte le fasce sociali, culturali e familiari. Era un periodo in cui l’impegno politico e sociale si fondeva con le aspirazioni professionali e la vita privata, e partecipare alla vita del partito significava vivere un tutt’uno con la città.
All’inizio degli anni ’80 quell’incanto cominciò a sfumare. Anche nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro cresceva la consapevolezza che i successi elettorali del partito stavano migliorando soprattutto la vita dei dirigenti politici e degli amministratori al potere.
Molti militanti, disillusi e disorientati dalle vicende nazionali e locali, abbandonarono l’attività politica. Altri scelsero di restare fino a quel novembre del 1989 in cui la storia del PCI si concluse con la svolta della Bolognina, segnando la fine di un’epoca e la chiusura di un capitolo della vita politica della città.
( Return Indice )
NOTE
______________________________________________________________
- Chi scrive in quegli anni era a Napoli consigliere della Circoscrizione Mercato-Pendino. (Return)
______________________________________________________________
Bassolino TERRA NOSTRA Napoli, la cura e la politica Marsilio 2021 (Return alla nota su libro )
________________________________________________________
Relazione sullo Stato della Lotta alla Mafia presentata alla Camorra alla Camera dei Deputati dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta il 22 ottobre 2000. ( Return alla nota sulla vicenda Maresca )